Recensione di Ameluk di Mimmo Mancini. L'esordio alla regia dell'attore pugliese ha grandi ambizioni sociali ma il risultato non è all'altezza
L’integrazione, annoso problema che affligge la nostra politica interna e che da un decennio a questa parte è diventato scandalosamente strumento di campagne elettorali di bassa lega, non è solo tema di interesse nazionale. Anche in un paesino piccolo come Bitonto, una comunità in cui si conoscono tutti, il confronto con culture diverse dalla propria può portare scompiglio, confusione e soprattutto essere strumentalizzato per scopi politici.
È quello che accade in Ameluk, esordio alla regia dell’attore Mimmo Mancini, qui anche co-protagonista e sceneggiatore. Il giovane Yusuf, musulmano di origine giordana, è sposato con una donna pugliese, dalla quale ha un figlio piccolo, e gestisce un internet point, mentre il fratello ha un negozio di kebab. Tutti in paese lo adorano, perché Jusuf è un animo buono, gentile, sempre disposto ad aiutare il prossimo e l’integrazione, nel suo caso, sembra perfettamente riuscita. Fino al giorno in cui, poco prima della tradizionale processione della Via Crucis, il candidato al ruolo di Gesù si infortuna: toccherà a Jusuf sostituirlo, creando un piccolo scandalo in paese, cavalcato dal candidato sindaco Mezzasoma, razzista e conservatore, che scatenerà un vero e proprio circo mediatico contro il giovane.
Se le intenzioni sono buone, Mancini all’esordio registico si dimostra troppo immaturo per essere all’altezza degli importanti temi trattati: tutto lo sviluppo ha infatti un’aria superficiale e raffazzonata, a partire dalla sceneggiatura che fa esplodere i conflitti e li sana con sorprendente faciloneria. Altro grave problema sono i personaggi, macchiettistici, poco sfumati, totalmente bidimensionali. L’incorruttibile gentilezza di Jusuf, davvero un messia misericordioso, risulta difficile da credere, così come la granitica stupidità di Mezzasoma, il modaiolo anglicismo (di matrice renziana) dell’altro candidato sindaco, il lezioso buonismo di Rita, davvero insopportabile. Ma ci sono anche l’intellettuale ebreo, il vecchio comunista da centro sociale (azzeccato, questo sì), i parenti ignoranti, il prete illuminato: una vera e propria galleria di stereotipi. Il tratteggio abbozzato dei caratteri finisce per ripercuotersi anche sulle motivazioni della scrittura: la moglie di Jusuf, sguaiata e focosa donna del Sud, lo maltratta quasi sadicamente e, appena iniziano le difficoltà, non esita a scaricarlo in un baleno, rendendo oscure le ragioni della loro unione, mai indagata.
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La rappresentazione dell’avidità stolta dei media che si scaglia sul povero immigrato è realistica nei meccanismi, ma anch’essa soffre di una superficiale sbrigatività che la svuota di significato. Un ritmo incostante e spesso prolassato azzoppa inoltre l’andamento, che a lungo andare annoia lo spettatore, anche a causa dei telefonatissimi sviluppi narrativi, con romance e lieto fine che incombono minacciosamente anche sui momenti più tensivi.
È l’approfondimento a mancare in tutti i risvolti di Ameluk, non ultimo quello prettamente cinematografico, con una regia piatta che non osa mai, limitandosi ad accompagnare le incorporee silhouettes nell’assolato paesaggio pugliese.
Un’ “integrazione for dummies”, buona forse per un pubblico di studenti delle medie, che si ferma a livello di schizzo preparatorio e non riesce ad andare più in là.
Voto della redazione:
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