Presentato fuori concorso al festival di Berlino 2015, "Every Thing Will Be Fine", l'ultimo film di Wim Wenders, delude le aspettative. Alexey German Jr. invece affascina il pubblico con il suo "Under Electric Clouds"
Presentato fuori concorso al Festival di Berlino 2015, Every Thing Will Be Fine segna purtroppo un brutto tassello nella filmografia di Wim Wenders, regista tedesco tra i più amati e ospite della Berlinale per ricevere il premio alla carriera.
Avvalendosi di un corposo cast (James Franco, Rachel McAdams, Charlotte Gainsbourg) e girato con l’utilizzo di un 3d perfettamente studiato, ma del tutto inutile, il film si rivela un prodotto incapace di emozionare e senza una base su cui poi poter costruire qualcosa di solido. La pellicola presenta moltissimi difetti, troppi, a cominciare da una sceneggiatura spaesata che mette al centro della vicenda personaggi vaghi e dal minimo spessore per farli interagire tra loro con svolte narrative davvero poco credibili. Lo stile di Wenders poi fa il resto: non curante della qualità della recitazione (tutti gli attori sembrano svogliati e fuori parte), il regista non indovina nemmeno le scelte che riguardano la colonna sonora (invadente e fuori luogo) o l’utilizzo delle dissolvenze in nero. Alla fine della visione, dunque, lo spettatore rimane a bocca asciutta, spazientito e irritato da quello che decisamente non è un film all’altezza della firma del suo ideatore.
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Sensazioni completamente diverse sono invece quelle dopo la visione di Under Electric Clouds, di Alexey German Jr. La pellicola, presentata oggi in concorso, è il lavoro più autoriale passato in rassegna qui a Berlino e nonostante sia necessaria una seconda visione per esprimere un giudizio più completo e competente, sin da subito è chiaro che l’opera firmata dal regista russo è un lavoro ambizioso, solido, umano e pessimista.
Articolato in sette episodi ambientati in un’ipotetica (ma forse non troppo) Russia del 2017, il film segue alcuni spaccati di esistenza di diversi personaggi accomunati da un senso di inadeguatezza nei confronti di un alto e spettacolare edificio a rischio di smantellamento. Ricreando un paesaggio livido e desertico, German lascia muovere i suoi protagonisti all’interno di uno spazio disorientante, omologato e senza punti di riferimento che rispecchia esattamente le loro vite. Più in generale l’atmosfera che si respira in scena è un riflesso di un Paese dal passato catastrofico che probabilmente non riuscirà a risollevarsi nemmeno in un futuro molto prossimo. La componente umana e la solidarietà saranno le carte che (forse) daranno loro accesso ad una via di fuga, lontana dalla freddezza metallica delle macchine (presenti in massa durante il film tra robot, motorini, palazzi, industrie ecc.) e dal rigido individualismo legato alle differenze di razza, lingua e cultura. Avvalendosi di una regia studiata nei minimi dettagli, con lunghe inquadrature dotate di rara bellezza e movimenti di macchina sinuosi e mai ingiustificati, German riesce a dar prova del suo talento visivo senza mai scendere a patti con lo spettatore. Il film, infatti, è davvero complesso e spinoso da seguire, calibrato su tempi molto lunghi e su un’estetica autoriale che ricorda decisamente la matrice geografica di provenienza del regista.
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