Festival di Venezia 2015: si festeggia la carriera di Brian De Palma con la proiezione del documentario a lui dedicato. Peccato però che l'operazione manchi di un mordente cinematografico, riducendosi ad una sorta di extra straight to dvd
Qui alla 72° Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia si festeggia Brian De Palma, insignito con il Glory to the Filmmaker Award, riconoscimento già andato in passato a cineasti come Takeshi Kitano, Abbas Kiarostami e Spike Lee. Per l’occasione, è stato proiettato in anteprima stampa anche il documentario De Palma, realizzato a quattro mani da Noah Baumbach e Jake Paltrow.
Inutile dire che qualsiasi docu che tratti la carriera dell’autore in questione sarà per forza di cose interessante; e come non potrebbe esserlo, dato che stiamo parlando di opere del calibro di Vestito per uccidere, Scarface, Gli intoccabili, Carlito’s Way e Carrie – Lo sguardo di Satana? Eppure, va ammesso che il lavoro condotto da Baumbach e Paltrow si riduce semplicemente nell'aver messo la cinepresa davanti a De Palma, lasciandogli il tempo di parlare e raccontarsi per le due ore di durata. In pratica, un’intervista fiume che sarebbe potuta benissimo essere un libro, piuttosto che una pellicola, un documentario che si potrebbe anche solo ascoltare, senza necessariamente aprire gli occhi.
Insomma, a mancare nell’operazione è proprio il mordente cinematografico: una cosa tristemente paradossale, questa, essendo De Palma uno dei registi più cinematografici che abbiamo mai avuto nella storia della settima arte, uno che – veramente – lavora sulle immagini, sulle inquadrature e sulle possibilità del montaggio. E invece, il documentario su di lui odora di piattezza e disimpegno, di compitino portato a termine quasi controvoglia, e gli stessi materiali inediti di repertorio (il più delle volte fotografici; raramente audiovisivi) si riducono a mera decorazione con cui farcire gli aneddoti. Più che un film a sé stante, De Palma si rivela una sorta di extra da DVD, di quelli che potreste trovare in futuro nei cofanetti monografici dedicati a singoli autori.
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D’accordo, lui è simpatico, e vederlo raccontarsi è una gioia nonché un’esperienza certamente istruttiva per chiunque intenda imparare qualcosa sul mestiere del regista. Di certo, però, avendo avuto del materiale di partenza così forte, il docu poteva e doveva decisamente esser fatto in maniera più potente e incisiva.
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