Recensione di Soul Boys of the Western World: Spandau Ballet - Il film | Pop!
Recensione di Soul Boys of the Western World: Spandau Ballet - Il film di George Hencken: la band viene raccontata, ma sono Londra, il new romantic ed il pop ad essere i veri protagonisti
All’annale questione Spandau Ballet o Duran Duran, Soul Boys of the Western World di George Hencken non darà risposta, ma forse affievolirà l’intensità di un dubbio del genere.
In realtà, la domanda viene a mala pena sfiorata, concentrandosi sulla cronistoriadel gruppo londinese, indimenticato, fulgidamente per chi gli anni Ottanta li ha vissuti tramite il pop (o chi ne vive adesso e con la capacità di guardarsi indietro), come icona trash e grazie a una manciata di hit come True e Gold per chi vede quel decennio come un grosso baraccone al più orecchiabile e dai look improponibili.
E non si tratta neanche di un bombardamento di curiosità o di resoconti complessi e compressi: la maggior parte degli elementi necessari ad inquadrare gli avvenimenti viene data per scontata e, lontano da una profondità che calchi troppo la mano sulle vicende personali dei musicisti e privo di bandiere come di (pre)giudizi, Soul Boys of the Western World finisce con l’apparire carente dal punto di vista direttamente informativo, e morbido e moderato da quello realizzativo, con un montaggio calmo e posato, dedicato al dare con ordine le immagini piuttosto che al ricombinarle.
Perché è evidente dal principio alla fine quanto l’intento e l’impulso di George Hencken fossero legati primariamente al visivo in senso stretto: fedele ad una concezione onnicomprensiva del carattere positivamente superficiale del pop, gli Spandau Ballet sono solo la locomotiva, l’icona delle icone del periodo più estremo dell’imposizione globale delle immagini e della musica strabordanti ed esuberanti. Il film risulta essere un ubriacante insieme di materiali capaci di riempire gli occhi con il loro appeal: dalla qualità delle riprese (amatoriali e televisive) all’abbigliamento, con quella Londra che passando attraverso il punk e il new romantic era sempre il più grande ricettacolo di oddities, di quell’eclettismo sporco e viscerale insieme sgargiante e spiazzante, cupo e coloratissimo, quasi senza tempo ed ammaliante.
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Il feticismo freak non rimane deluso da questo documentario che ha negli Spandau un protagonista mitico ma mite, posto al centro d un fenomeno, quello del pop degli anni Ottanta (ma in realtà quasi ogni cosa che esca da quel periodo potrebbe sortire gli stessi effetti), che può essere descritto quanto si vuole, ma che per propria natura vive d’immagine, che adesso è quella del reale e della fascinazione derivante che solo il materiale di repertorio può avere.
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Voto della redazione:
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