Ritratto di Erika Favaro
Autore Erika Favaro :: 2 Novembre 2015

Pasolini non avrebbe mai voluto diventare un luogo comune, l'arte e la vita per lui erano un contrasto continuo, doloroso ma necessario

Pier Paolo Pasolini

Sono passati quarant’anni da quella notte all’Idroscalo di Ostia, da quando Pier Paolo Pasolini se n’è andato, quando il suo corpo è stato sfigurato. Ricordarlo è importante, fondamentale, e gli anniversari servono proprio a questo: a chiedersi in che modo stiamo facendo rivivere il pensiero di qualcuno, in che modo stiamo custodendo il suo ricordo, la sua intelligenza. Perché c’è sempre una trappola dietro l’angolo; quella della santificazione. Una bestia che si morde la coda e che ne contiene un’altra al suo interno: la semplificazione.

Rischia questo, Pasolini del 2015: di essere un santo semplice, quando dovrebbe essere un contrasto complicato come sempre è stato in vita. Certo è che tutti, anche chi all’epoca lo criticava, hanno chinato il capo innanzi alla sua preveggenza. L’artista friulano è stato in grado di parlare agli italiani del futuro, a una popolazione perduta perché completamente anestetizzata dal sistema dei consumi.

Tutti riconoscono il valore letterario delle poesie, soprattutto quelle in dialetto friulano, ma anche quelle scritte durante la maturità. "Sei insostituibile. Per questo è dannata / alla solitudine la vita che mi hai data. / E non voglio esser solo. Ho un’infinita fame / d’amore, dell’amore di corpi senza anima".  Chi non ha letto Supplica a mia madre ha appena avuto la prova che è una mancanza personale a cui provvedere immediatamente.

Il suo volto scavato con gli occhi corvini è diventato ormai un’icona, il suo nome risuona come garanzia di profondità, viene usato da troppe bocche ignoranti per darsi un tono.

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Pasolini soffriva di vittimismo, era in costante ricerca di approvazione – anche tra le fila degli intellettuali vicini al comunismo, coloro che avrebbero dovuto essere la sua gente e che invece gli rimasero distanti – sapeva di essere un animale sacrificale. Ma mai avrebbe voluto diventare un simbolo vuoto. Lui, che amava il contrasto, ateo ma cristiano, contestatore ma critico del ’68, individualista ma assetato di affetto, avrebbe voluto continuare a dividere e disturbare, innervosire e far riflettere. L’Italia del 2015 l’aveva già vista, ma di certo avrebbe voluto continuare a risvegliare gli animi assopiti di un mondo culturale incapace di reagire. 

Perché fidarsi di quel ragazzo quella notte? Perché seguirlo nonostante le minacce? Perché per amare la solitudine bisogna essere molto forti e non bisogna temere gli assassini.

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