Recensione di American Sniper: l’ideologia, la violenza e il male, Eastwood mostra il coraggio e il dramma dell’inarrestabile cecchino Chris Kyle (Bradley Cooper), ma emerge il desiderio di mitizzare l’eroe, l'invadenza del sentimento patriottico
Il cecchino più letale della storia americana si chiama Chris Kyle ed è un cowboy texano cresciuto a pane e ideologie. Leggenda tra i Navy Seals in cui si arruolò nella guerra contro il terrorismo (dal 1999 al 2009) e giustiziere implacabile per un Paese sempre pronto a nutrire la propria vocazione patriottica. Kyle svolse quattro turni e mille ore di servizio sul fronte iracheno, mietendo centosessanta vittime ufficiali (oltre duecento non dichiarate) e portando a casa la biografia di un massacro. Non fu un esaltato di guerra, ma padre, marito e soldato che penetrando la polvere d’odio nemica trovò il “male come non l’aveva mai visto”. Lo stesso male che Clint Eastwood estrae dalle pagine dell’omonimo libro da cui American Sniper è tratto e per il quale trasforma Bradley Cooper in un massiccio, introverso e coraggioso guerriero; figlio di un credo militare con la bibbia in una mano e il fucile nell’altra, pronto ad annientare il pericolo con precisione chirurgica.
Clint ha passato metà della sua carriera con una pistola in mano e per l’occasione impugna la camera con la medesima forza e la rovente, asciutta e dettagliata necessità di giustizia. Per lui Kyle è un eroe, è uno che ha visto l’inferno ed è risalito, ha perso se stesso, ma è ritornato. American Sniper è la lettura personalissima e sincera della vita di un sopravvissuto, di chi fu rapace e infallibile angelo custode per i commilitoni e "Diavolo di Ramadi" temuto e odiato tra gli insorti (insieme al soprannome gli misero anche una taglia di ventimila dollari sulla testa).
L’ormai ex veterano Kowalski vuole mostrare la violenza ed è la sua furia quella che inquadra. La salda sopra ogni pallottola insieme all’efferato nonsenso di quel male, la piazza nel frastuono delle urla e nel sangue degli spari, nel mirino spietato di ciò che la guerra chiede e prende, nell’eco delle ossessioni che rientrano a casa coi reduci, nella pressione di decisioni drammatiche e in venti minuti di una tempesta di sabbia rossa che inabissa i sentimenti. Il cinema di Eastwood per quanto lontano da alcune vette ormai passate continua a essere intriso di bisogni morali, di storie senza fronzoli e di volti che hanno negli occhi la melanconia (Miller), la rabbia o il vuoto (Cooper) di vite straordinarie. Non ha timore di rivelare ciò che pensa, anche se lo fa come in questo caso con una sfacciata onestà di parte, che omette paragrafi di verità poco decorose o descrizioni di un nemico marchiato (nel film) semplicemente come “selvaggio”. È a questo livello che American Sniper diventa lavoro di superficie, interessato più alla mitizzazione dell’uomo (per non dire della Nazione) che alle confessioni del suo racconto. È in questo sgravio di un proficuo confronto tra la gloria e il profano che anche gli accenni ai dubbi di Kyle sul proprio operato, il suo precario equilibrio psichico, il distacco dalla famiglia e lo scenario di fondo diventano temi ridondanti, a seguito di un panorama cinematografico che di eroi e di bombe ne ha consegnati in abbondanza già da tempo.
Voto della redazione:
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