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Autore Davide Stanzione :: 15 Ottobre 2015
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Recensione di The Lobster di Yorgos Lanthimos con Colin Farrell e Rachel Weisz: il regista greco mette in scena un'altra straniante e claustrofobica distopia, tra umorismo nero, situazioni gelide e ossessivo compiacimento

È un cineasta volutamente scomodo e poco rassicurante, il greco Yorgos Lanthimos. Il suo è un cinema che non contempla via di fuga, che vive di sistemi chiusi e allegorie dispotiche e distopiche, che costruisce sé stesso sempre e comunque a partire da punti di non ritorno, da premesse irreali e disturbanti che sono l’essenza della sua poetica provocatoria e corrosiva. È il nome più rappresentativo della new wave ellenica, non a caso, un gruppetto di registi visti in questi anni in svariati festival che non temono affatto di apparire torvi e manipolatori, claustrofobici e alienanti. Il primo film in lingua inglese di Lanthimos e con un folto cast internazionale, The Lobster, non fa assolutamente eccezione e prosegue in scia rispetto ai suoi passati lavori, creando però una sorta di stramba sovrapposizione tra il proprio stile e un manipolo di attori molto noti che si prestano di buon grado alla giostra fantapolitica dell’autore greco.

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Perché è sempre una questione di fantapolitica, per Lanthimos, inutile legarlo: al suo debutto su grande scala, messe da parte le storture familiari dei film precedenti, la mente dietro Dogtooth e Alps sceglie di radicalizzare la riflessione sui sentimenti nella società di oggi dando vita ad una specie di farsa affettiva nella quale, in un futuro non troppo lontano, chiunque non riesca a trovare un partner viene trasformato in animale. L’intento del film, nonostante gli elementi metaforici, è letterale e venato di humour nero, di sadismo, di agghiacciante ironia: Lanthimos vuole dimostrare per mezzo di continue forzature un teorema insindacabile, compatto e inamovibile, che sta alla base del film e che appare già eloquente, così da mettere in dubbio il bisogno tanto di una conferma quanto di una confutazione. The Lobster intende parlare di reificazione dell’umano, di mercificazione dell’innamoramento, di un vivere associati tramutatosi in sovrastruttura coercitiva e concentrazionaria. Tutto ciò è però talmente sbandierato, sfacciato ed evidenziato in maniera compiaciuta e perfino sorniona da far avanzare, lento e inesorabile, il sospetto della gratuità, della cattiva fede, di una voglia masturbatoria di soggiogare lo spettatore dentro un pamphlet orwelliano che degenera in trattatello grottesco. Privo di radici, motivazioni e bersagli.

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La forma, ovviamente, si adegua di pari passo: siamo dentro un hotel, e a una prima parte di inquadrature calibrate e maniacali segue una seconda in cui i presupposti, in parte fascinosi, della prima vengono fatti a pezzi e manipolati fino a travalicare la soglia del ridicolo involontario, facendo emergere in modo impietoso la stasi e la paralisi di un cinema che non sembra avere nulla da offrire al di là della sua ferocia aprioristica, della sua disperazione cartoonesca, dei suoi universi paralleli che vorrebbero smascherare i paradossi più atroci del mondo contemporaneo, ma finiscono soltanto col rivelare le contraddizioni interne di un pessimismo cosmico dal fiato corto, tra musiche eclettiche (Beethoven, Nick Cave e canzoni tradizionali greche) e un finale imbalsamato che non pare possedere il coraggio di un ultimo slancio. Comunque tardivo.

Trailer di The Lobster

Voto della redazione: 

2

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