Recensione di Marguerite | Il ridicolo è sublime e l'opera lirica stonata affascina Venezia
Recensione di Marguerite | La storia vera della stonatissima cantante Florence Foster Jenkins diventa, grazie alla regia barocca e romantica del francese Giannoli, la messa in scena melò ma esilarante di un'illusione che non vuole essere smascherata
Ispirato dalla storia vera della stonatissima (e ricchissima) cantante lirica Florence Foster Jenkins, la quale sarà protagonista anche del prossimo bio-pic di Stephen Frears interpretata da Meryl Streep, la Marguerite di Xavier Giannoli, qua impersonata da una dolcissima Catherine Frot, vive negli anni Venti, i Golden Twenties dopo la Grande Guerra, anticipando l’azione di due decadi: il regista di Superstar, anch’esso in concorso a Venezia nel 2012, si eleva dalla storia originale, che pur mantiene la struttura narrativa di base, e rielabora un racconto a capitoli, formalmente melò, ma internamente d’avant-garde, nel tentativo di catturare l’anima ingenua ed enigmatica della famosa Baronessa stonata.
Apparentemente ignara della sua voce stridente, Marguerite Dumont viola inconsapevolmente la sacralità dell’opera lirica, ridicolizzandola e abbassandola al rango d’arte amatoriale, quindi popolare. Supportata dall’approvazione solidale, ma certo accondiscendente solo della sua servitù, in particolare dall’assistente Madelbos, Marguerite infatti, senza rendersene conto, si fa gioco dei canoni prestabiliti dell’arte, divenendo la diva prescelta degli ambienti nascenti del Dada, protagonista involontaria delle prime serate del Cabaret Voltaire, paladina dei freaks e degli artisti al di fuori delle classi agiate.
Narcisista come i selfiesti di adesso, di Marguerite è facile innamorarsi: il suo amore per la musica è cieco fino alla follia, come una Black Swan aronofskiana, ma sprezzante e creativa nella sua completa illusione di appartenere a un mondo che la deride di nascosto. Lontana da un pubblico di cui però non può fare a meno, Marguerite è già l’eroina di tutte le grandi opere musicali, immortalata nei ricchi costumi e inquadrata nelle scenografie esotiche dall’obiettivo dell’occhio fotografico di Madelbos, che ne dirige le esibizioni, mentre fa recitare la parte degli ammiratori ai suoi derisori, come un devoto assistente, ma forse più come un esperto regista.
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La contrapposizione tra il sublime e il ridicolo fa emergere nell’opera barocca e romantica di Giannoli ombre proprie della società dello spettacolo, anche contemporaneo, nonché della critica più reticente e cocciuta, che pongono la bellezza su piedistalli pressoché predestinati, inscalfibili e inarrivabili se non da pochi eletti. Ma più in fondo giace l’ambiguità del valore della verità, nell’arte prima, nei rapporti umani poi. L’incapacità di chi sta intorno a Marguerite e soprattutto l’impotenza di suo marito, interpretato da André Marcon, di rivelarle la natura stridula e insopportabile della sua voce, gioca, sì, all’atmosfera ilare e burlesca della pellicola ma contribuisce inoltre ad arricchire di tragicità il carattere malinconico e sfuggente della protagonista, che attende invano l’arrivo dell’amato per cominciare a cantare.
Il sesto lavoro del regista francese non si esime dai difetti, a cominciare dall’insistenza sulle facili gag a disposizione della trama fino alla limitata apertura delle storie secondarie: ma il rigore compositivo colorato dalla splendida fotografia di Glynn Speeckaert disegna con tale garbo e delicatezza la storia di un sogno, solo apparentemente spezzato o rimandato, che anche noi spettatori non saremmo in grado di rinnegare.
Voto della redazione:
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