Recensione di Sivas di Kaan Mujdeci. Una delicata amicizia tra un bambino e un cane da combattimento tra le aride campagne dell'Anatolia, in concorso a Venezia 71
In concorso a Venezia 71 l’esordio alla regia di finzione del turco Kaan Mujdeci, Sivas, che racconta della strana amicizia tra un ragazzino dell’Anatolia (Dogan Izci) e un cane da combattimento. Non nuovo all’argomento, Mujdeci aveva firmato due anni or sono un documentario (Babalar ve ogullari) dedicato proprio al mondo del combattimento tra cani in Anatolia: tralasciando gli aspetti più squallidi e cruenti di questa barbara forma di intrattenimento, il regista opta per un taglio più sfumato. Certo, non mancano le sequenze di lotta accanita tra i quadrupedi, ma quantomeno nessuno di loro ci lascia le penne, rendendo un po’ incomprensibili le lamentele e i fischi del pubblico indignato durante la proiezione stampa. Anche perché, si spera, nessuno si è fatto veramente male. Ben più scandalosa è stata invece la sottotitolatura in italiano della pellicola, zeppa di refusi ortografici davvero orrorifici e, qua e là, di linee tradotte in francese: un pasticciaccio che certo non ha giovato al film stesso.
Aslan ha undici anni e vive in un arido e desolato villaggio dell’Anatolia insieme al fratello maggiore (Ozan Celik) e a una famiglia tradizionale: padre padrone (Hasan Yazilitas) e madre inesistente (Banu Fotocan). Innamorato della graziosa coetanea Ayse (Ezgi Ergin), che interpreterà il ruolo di Biancaneve nella recita scolastica, non sopporta che a vestire i panni del principe sia il figlio del sindaco (Furkan Uyar). Quando trova, dopo un combattimento feroce, il cane Sivas agonizzante, decide di prenderlo con sé per farsi bello agli occhi dell’amata: si affeziona sinceramente all’animale, ma Sivas è un campione e tutti lo vogliono sul ring.
Con la lentezza sonnolenta e un po’ torbida che contraddistingue molto cinema turco, Mujdeci segue le peregrinazioni del piccolo Aslan (in turco, simbolicamente, leone) per le campagne sterili del suo villaggio, accompagnato dall’enorme e fedelissimo Sivas, tenero cucciolone con il padrone e belva feroce se aizzato a combattere. Tanti i temi che vengono sfiorati e mai approfonditi: la mancanza di una famiglia, la manipolazione femminile del maschio che comincia in tenera età, i dubbi esistenziali del giovane protagonista (un cane da combattimento è pur sempre un essere vivente, capace di amore e meritevole di rispetto). Il vagare della cinepresa fra i campi dell’Anatolia rischia così di perdersi e di lasciare impresse nella memoria dello spettatore solo le crude lotte tra campioni canini: di qui lo scandalo che avrebbe suscitato la pellicola. In realtà, se Sivas fosse stato filmato a Hollywood, sarebbe potuto diventare un lacrimoso film per ragazzi (vi ricordate Teneramente in tre?), tanto pulita e, sostanzialmente, innocua è l’amicizia ritratta tra il bambino e il cane. Per scelta del regista, tutti gli attori sono non professionisti: una ricerca di realismo che si sposa con la primitività desertica dell’ambientazione. Un esordio scialbo, con più difetti che pregi, come è lo standard di questo scolorito concorso veneziano.
Voto della redazione:
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