Ritratto di Chiara Tartagni
Autore Chiara Tartagni :: 11 Giugno 2014

Nulla di strano nel passaggio di Luchino Visconti dal Neorealismo al Risorgimento: Il Gattopardo è l'esempio perfetto dell'arte al servizio di una precisa visione storica.

Luchino Visconti, "Il Gattopardo", 1963

È ben noto che Luchino Visconti, soprannominato “Conte Rosso” del cinema, era sì davvero conte, ma altrettanto fedele alla propria fede politica di sinistra. Nella sua opera, passando da Senso (1954) fino a Il Gattopardo (1963), ritroviamo la stessa spinta dalla Storia verso il presente che negli stessi anni portò Roberto Rossellini dal Neorealismo all’analisi didattica de La presa del potere da parte di Luigi XIV (1966). Non v’è nulla di incoerente in questo passaggio: secondo Rossellini, che aveva in mente un ambizioso progetto enciclopedico e umanistico fondato sui nuovi orizzonti tecnologici, l’uomo è fatto di Storia e conseguentemente essa fa parte integrante della sua realtà. Essa non è fatta tanto di personaggi e grandi condottieri, ma piuttosto di comportamenti. Il Gattopardo, tratto dall’omonimo romanzo postumo di Tomasi di Lampedusa che si ispirò al proprio nonno per la figura del Principe di Salina, è un esempio compiuto di arte al servizio di una visione storico-politica. «Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi». In queste parole, con le quali il giovane nipote Tancredi lascia il Principe di Salina per unirsi alle truppe garibaldine, troviamo un intento che è ben più che privato: è la volontà di una classe sociale che, sentendo approssimarsi la rovina, tenta di salvarsi dominando il cambiamento, in un certo senso indossandolo, pronta a cambiare veste se si rendesse necessario. Su tutta la vicenda aleggia un sentore lieve ma inarrestabile di morte, di volontà d’oblio. Il ballo del Principe di Salina con la bellissima Angelica (nome tentatore fin dai tempi dell’Orlando furioso) rappresenta il corteggiamento, colmo di reciproca, circospetta fascinazione fra la nobiltà destinata a decadere passiva e la borghesia, che già scalpita e morde golosamente il futuro. Angelica è il verde germoglio che si installa sul tronco ormai morente della famiglia Salina. È qui che si fa l’Italia, è qui che i sorrisi compiacenti della borghesia si amalgamano con la sdegnosa rassegnazione della nobiltà, che si chiude nell’ombra accogliente e uterina dei grandi palazzi.

La figura medesima di Don Fabrizio è sapientemente divisa in due, altalenante fra l’amore per l’intelletto ereditato dalla madre e la natura carnale e immobilista del padre. Interessante è la mancata partecipazione dell’attore shakespeariano per eccellenza, Laurence Olivier, nel ruolo principale, scelta che Visconti aveva fortemente caldeggiato; altrettanto interessante la scelta di un divo hollywoodiano come Burt Lancaster, rivelatosi poi il volto perfetto per il Principe di Salina, quasi l’incarnazione dello stesso Luchino Visconti: di bellezza aristocratica ma sensuale, il suo sguardo lucido e sofferente si posa con fin troppa consapevolezza sulla desolazione intorno a sé. «Noi fummo i gattopardi, i leoni: chi ci sostituirà saranno gli sciacalli, le iene; e tutti quanti, gattopardi, leoni, sciacalli e pecore, continueremo a crederci il sale della terra», dice il Principe, che rifiuta il futuro (la carica di Senatore) e si ritira a vita privata. E per sostenere l’attualità della vicenda, l’attenzione di Visconti e dei suoi collaboratori per le fonti storiche e pittoriche si fa di stampo documentaristico, ricordando molto da vicino l’attitudine di Stanley Kubrick. Racconta Piero Tosi, creatore degli splendidi costumi, che se per le divise dei Mille si era rigidamente attenuto alla verità storica riscontrata presso il Museo Risorgimentale di Palermo («avevano una poesia del fatto in casa […] Ognuno arrivava con la sua uniforme tagliata e cucita dalle mamme, dalle nonne, dalle fidanzate. Non c’era una camicia rossa uguale all’altra nella truppa di Garibaldi, non c’era un pantalone uguale all’altro. E non dovevano esserci camicie e pantaloni in serie nel film»), per l’abito che rese celebre la figura di Angelica-Claudia Cardinale sceglie consapevolmente di allontanarsi dall’origine letteraria per affondare sempre più le radici nella Storia: «Io, fra quei paesani dai modesti panni, dagli scuri fustagni, immaginai una ragazza vestita di bianco. Senza sapere chi l’avrebbe indossato, curai in modo particolare quell’abito, campionando stoffe, torturando la sartoria e Tirelli perché quel bianco lo volevo di un certo tipo, un bianco per un abito borghese non troppo elegante. Lo feci di étamine bianco grezzo, con un’applicazione di un soutache a disegno geometrico, guarnizione tipica del Secondo Impero. Il tormentone fu l’abito di Claudia Cardinale. Nel romanzo, Tomasi la veste di rosa, con i guanti lunghi. Tutto sbagliato per quel che riguarda la storia del costume»[1]. Affascinante il fatto che l’Angelica rosea, antistorica e forse più pudica di Tomasi di Lampedusa sia diventata la fulgida, esotica provocatrice dalle braccia nude e ben tornite che seduce il passionale (e soprattutto nobile) Tancredi.

Anche il produttore Goffredo Lombardo sottolinea il perfezionismo storico-estetico di Visconti, che rivela una ben determinata intenzione politica: «Girando in Sicilia, e non dico sulle Alpi ma in Sicilia, pretese che gli arrivassero con l’aereo da San Remo quintali e quintali di fiori freschi ogni giorno per abbellire determinate scene. In quella famosa del ballo volle tutti i numerosi lampadari della sala illuminati con le candele vere. Naturalmente queste candele si squagliavano e di conseguenza, oltre al trambusto iniziale per accenderle, c’era quella di interrompere la lavorazione ogni ora, prendere di nuovo le scale di legno, cambiare le candele, a centinaia, e riaccenderle. Sempre nella scena del ballo, tutti gli uomini portavano i guanti bianchi. Dato il caldo e l’inevitabile bagno di sudore i guanti dopo alcune ore si ombravano. Nessuno lo avrebbe notato e tanto meno la macchina da presa, ma Visconti sì, e pretese che impiantassimo sul luogo una lavanderia con una cinquantina di donne addette a lavarli perché non poteva girare se i guanti non erano proprio immacolati!»[2]. Ritroviamo nell’evocazione di questi episodi il perfezionismo che avrebbe poi permesso a Kubrick di girare le scene notturne di Barry Lyndon con candele e un obiettivo firmato NASA: perfezionismo ben radicato in una prospettiva che vede nella Storia un circolo vizioso, un eterno reiterarsi da cui non vi è uscita. Anche per Il Gattopardo e per Visconti potremmo utilizzare le parole con cui Sandro Bernardi definisce il lavoro compiuto da Kubrick su Barry Lyndon, ovvero «una restaurazione romantica della cultura precedente, che va all’indietro solo per ritrovarsi nel futuro»[3]. Afferma lo stesso Visconti: «il tema centrale del Gattopardo – “perché tutto rimanga com’è bisogna che tutto cambi” – non mi ha interessato soltanto sotto la critica spietata al trasformismo che pesa come una cappa di piombo sul nostro paese e che gli ha impedito di cambiare davvero fino ad oggi, ma sotto l’aspetto più universale, e purtroppo attualissimo, di piegare la spinta del mondo verso il nuovo alle regole del vecchio, facendo ambiguamente e ipocritamente sovraneggiare quelle da queste»[4]. Terribile guardare questo film e provare la sensazione che, proprio come allora, niente sia mai davvero oggetto di mutamento. Ancora oggi «…il nostro è il paese degli accomodamenti». 

 

[1] Piero Tosi. Costumi e scenografie, a cura di Caterina d’Amico de Carvalho e Guido Vergani, Milano, Leonardo Arte, 1997, pp. 46-47
[2] G. Lombardo, in L’avventurosa storia del cinema italiano – 1960-1969, a cura di Franca Faldini e Goffredo Fofi, Milano, Feltrinelli, 1981, p. 257
[3] S. Bernardi, Kubrick e il cinema come arte del visibile, Milano, Editrice Il Castoro, 2000, p. 59
[4] A. Trombadori, "Dialogo con Visconti", in Il film ‘Il Gattopardo’ e la regia di Luchino Visconti, a cura di Suso Cecchi d’Amico, Bologna, Cappelli, 1963, p. 30

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