Recensione di A rose reborn di Park Chan-wook | Il regista sudcoreano per la prima volta alle prese con un corto commissionato dalla casa di moda italiana Ermenegildo Zegna: rinascita e bellezza si intrecciano per una nuova generazione di leader
Park Chan-wook ha ormai evidentemente intrapreso una svolta nella sua carriera di autore e regista: dopo il debutto hollywoodiano di Stoker e il ruolo da produttore per Snowpiercer sembra non aver ancora trovato una dimensione ideale tra l'Oriente e l'Occidente cinematografici, tentando diverse strade. Dopo i cult della Trilogia della Vendetta (Mr. Vendetta, Lady Vendetta, Old Boy), abbandonata la sceneggiatura, la prova registica di Stoker si è rivelata agile nel cogliere la scrittura altrui trasformandola in un gioco di simbolismi perturbanti mai scadenti; Snowpiercer ha invece rinnovato il suo interesse per il genere, voltato al nichilismo e al paradosso sociale.
Per A rose reborn Chan-wook si affida invece alla pura commissione della casa di moda italiana Ermenegildo Zegna e del suo direttore creativo Stefano Pilati, il quale ha lasciato in piena autonomia il regista sudcoreano per raccontare una nuova generazione di uomini, la cosiddetta New Leadership Generation, connessi in ogni angolo del mondo, ma consapevoli dei valori e delle tradizioni locali. Il corto di 19 minuti, ambientato in un ipotetico futuro, mostra l'incontro quasi mistico tra Stephen (Jack Huston), sciatto genio della tecnologia, e il misterioso Mr. Lu, elegante magnate cinese, in un viaggio da Londra al Wyoming, passando per Shanghai per finire al cimitero monumentale di Milano.
Sartoria e morte si intrecciano in uno scambio tra due mondi, quello occidentale e orientale, con la promessa finale di rinascita per mezzo della bellezza, di cui l'abito può essere un primo sprazzo, non di certo l'unico. Il regista coreano non scivola, infatti, nella superficialità a cui talvolta la moda può portare: riesce invece a costruire la sua particolare prospettiva dark, musicata dal già collaboratore Clint Mansell, senza farsi mancare il tocco di ironia e enigmaticità. Ricorrendo all'immagine del cerchio, Chan-wook consegna una personale idea di bellezza, che ha a che fare con la crescita e l'evoluzione dell'uomo nella riscoperta di un mondo tattile, naturale, durante una singola vita e all'interno della società che avanza.
[Leggi anche: Festival di Roma 2014: Park Chan-wook presenta "A rose reborn" e vorrebbe girare in Italia]
Se in fin dei conti si tratta pur sempre di un lungo spot, dimensione alla quale si rendono disponibili sempre più registi (Lynch, Luhrmann, Scorsese, e per ultimo Korine), A rose reborn non compromette lo stile del cineasta, anzi lo vizia, ingigantendolo e ampliandone la visione in nuovi territori, geografici e tematici.
Voto della redazione:
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