Recensione di The Tribe | Arriva nelle sale il film ucraino premiato a Cannes 2014: una tragica discesa negli inferi di una generazione, interpretata esclusivamente da ragazzi sordomuti e raccontata attraverso la lingua dei segni senza sottotitoli
Nel suo saggio “Il cinema di poesia”, Pasolini descrive la settima arte come un linguaggio di segni, la rappresentazione scritta della realtà, che da essa si distingue per l'utilizzo inconscio e “caotico” di immagini al posto di quello più razionale e codificato delle parole; l'immagine cinematografica sfugge a una lingua e a un alfabeto precisi, arrivando a comprenderli tutti e nessuno, nel tentativo di afferrare il darsi originario e “poetico” del reale. The Tribe è un perfetto esempio del discorso pasoliniano: scegliendo di usare esclusivamente la lingua dei segni, senza sottotitoli né cartelli o didascalie, annulla ogni convenzione e patto con lo spettatore per l'interpretazione logica e lineare dell'azione sullo schermo e lo riconduce all'originario per eccellenza, il muto.
Non è un fatto nascosto che il regista ungherese abbia voluto rendere omaggio al cinema prima dell'avvento del sonoro, con una scelta di forma (e non solo) che si impone ben prima della visione in sé: The Tribe non lascia spazio agli impazienti o ai pigri, offrendosi come un'esperienza sensoriale e intellettuale senza precedenti. I gesti, significanti di un linguaggio ai più sconosciuto, divengono però ben presto parte di un quadro in movimento perfettamente comprensibile, pur se privi di un significato preciso. È tramite una messa in scena che appare come una coreografia, con azioni che procedono ad una velocità quasi esasperata, che la regia ricorda il cinema muto, senza necessità di traduzione, proprio come si esprime anche la danza. Una danza in silenzio, in cui i suoni di sottofondo acquistano particolare rilevanza: in cui le urla di dolore, come nella gelida e disperata scena dell'aborto, sono molto più assordanti, e in cui la morte, che non ha voce per annunciare il suo arrivo, si compie d'improvviso nelle più brutali apparizioni.
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The Tribe non vuole essere assolutamente un esperimento filmico conciliante con la diversità che è la disabilità in questione: anzi, spesso la macchina da presa si ferma prima di “entrare” in scena, rimanendo fuori da una cornice (l'uscio o i vetri delle porte, delle finestre) che inquadra e allontana i protagonisti quasi a voler rispettare la distanza linguistica che li separa dallo spettatore. Ma soprattutto non è conciliante poiché ritrae una generazione, una “tribù” all'interno di una scuola per sordomuti, completamente persa tra giri di prostituzione, spaccio e violenza, da cui l'unica salvezza è l'emigrazione (per l'Italia) rimarcando così anche una distanza geografica dell'Ucraina, paese che, guarda caso, in Europa non riesce a farsi sentire, ammutolita dalla guerra ora in corso.
Parabola di distruzione individuale e collettiva quindi, The Tribe riesce a trascendere l'evidente ostacolo, che si eleva a messo espressivo linguistico, simbolico e stilistico, divenendo universale. Tragico quanto le tribù di Korine che sopravvivono senza adulti intorno, il film di Miroslav Slaboshpitsky, che ha già vinto alla Semaine della Critique di Cannes 2014, è destinato a rimanere un cult, non solo per il linguaggio adottato, ma anche per una cinematografia impeccabile e, nell'accezione pasoliniana, di poesia.
Voto della redazione:
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