Jean Cocteau morì a 74 anni il giorno 11 ottobre del 1963. Sono appena trascorsi i cinquant’anni dalla sua morte
Jean Cocteau morì a 74 anni il giorno 11 ottobre del 1963. Sono appena trascorsi i cinquant’anni dalla sua morte, eppure il poeta, cineasta, artista a tutto tondo, irregolare ed eccentrico, non è stato ricordato forse come si deve. Ecco un piccolo grande omaggio tratto da una rivista d’altri tempi, "L’altro Cinema", un editoriale scritto da Guido Carraresi proprio in occasione della morte di Cocteau:
Un ricordo di Jean Cocteau su queste pagine è doveroso anche perché, come è noto, l’artista recentemente scomparso si interessò, in varie occasioni, all’attività dei cine-amatori ed egli stesso usò spesso la cine-presa a formato ridotto “en amateur”, per realizzare film a carattere personale, non destinati al pubblico.
Penso quindi sia lecito apparentare Cocteau ai dilettanti, sia pure considerandolo un dilettante di eccezionalissima statura. Se è vero che egli si cimentò in molte – forse troppe – forme d’arte, con risultati non sempre egualmente felici, la sua opera vanta comunque, in ogni caso, una originalità, il segno di una personalità, la singolarità di un talento, la varietà di una profonda cultura che automaticamente, la distinguono dal dilettantismo.
Osserverò, ancora, che Cocteau non fu neppure un professionista del cinema, della letteratura o delle arti figurative, giacché nessuna delle sue opere appare suggerita dal “mestiere”. Non una riga, un fotogramma, un tratto di matita sue appartengono al commercio dell’arte. Jean Cocteau è stato un artista veramente libero, ha avuto lo straordinario privilegio di potere e di sapere esprimere se stesso sotto il segno dell’arte, senza autolimitazioni, costantemente ignorando le deficienze, per eccesso, del professionismo; quelle, per difetto, del dilettantismo. Eccessi e difetti sono, in lui, soltanto quelli suoi propri, i limiti unicamente quelli della sua personalità.
Seppe anche prescindere dalle costrizioni del conformismo. Visse come gli piacque vivere, senza curarsi dell’opinione dei benpensanti ma anche senza intollerabili scandali. Le sue licenze restarono entro la civiltà del buon gusto, parvero conciliabili con la dignità che si richiede ad un accademico di Francia.
Sotto tali aspetti un’arte ed una vita esemplari, assolutamente inimitabili. Al cinema attivo s’accostò nel 1930, già quarantunenne, realizzando su invito del Visconte di Noailles, che aveva avuto la curiosa idea di regalare alla propria consorte un film, “Le sang d’un poete”. Non ho mai avuto la possibilità di vedere quest’opera, di carattere, a quanto sembra, avanguardistico, che i critici, comunque, hanno quasi sempre, giudicato con severità pur riconoscendo che in essa Cocteau svolgeva pienamente i temi fondamentali della sua poetica.
Dieci anni più tardi scrive i dialoghi di un paio di film senza storia e prende parte, come attore, a “Il barone fantasma” di Serge de Poligny.
Nel 1943, infine, con “Leternel retour” (L’immortale leggenda) ha la possibilità di cimentarsi più compiutamente col mezzo cinematografico. Il film, ancorché firmato da Jean Delannoy, è tutto di Cocteau, testimonianza del suo gusto, dei suoi sentimenti.
A guerra finita, qualcuno ebbe la malinconica idea di riconoscere ne “L’eternel retour” una barocca e velata apologia del nazismo. Accusa risibile, giacché per Cocteau i tedeschi erano soltanto creature molto bionde, belle e romantiche. Dal momento che Hitler era piccolo, brutto, bruno e non precisamente romantico si può tranquillamente escludere che Cocteau abbia amato il nazismo.
“L’eternel retour” era solo una versione tipicamente cocteauiana del “Tristano ed Isotta”; esaltava la fatalità dell’amore in stupende immagini che ricreavano un clima rarefatto ed affascinante. Decisamente un bel film ove si voglia intendere, ovviamente, la bellezza secondo l’accezione tipica dell’artista.
Tre anni più tardi (dopo aver collaborato con Bresson a “La dame du Bois du Boulogne” in qualità di dialoghista) scrive e dirige “La belle et la bête”, poetica rielaborazione di una novella popolare. Anche stavolta il risultato figurativo è di altissimo livello. Elegante, prezioso, squisito, forse qua e là un po’ dispersivo; ci troviamo, ancora una volta, dinnanzi ad un film figurativamente assai bello.
Più interessante, però, il successivo “Les parents terribles”: esempio molto persuasivo di teatro cinematografato. Portando sullo schermo la propria, famosa commedia, Cocteau, restando fedele al testo originale, non tradì il mezzo cinematografico. Seppe, infatti, dare, attraverso una successione di primi piani, sempre intensissimi, precisa giustificazione filmica ad una storia nata per il palcoscenico.
Ma quello che vorrei definire il capolavoro cinematografico di Cocteau mi sembra sia “Orphée”, del 1950, con il quale Cocteau si confermava narratore cinematografico di straordinaria abilità. Tutto quello che il linguaggio del film può consentire venne sfruttato con una maestria tecnica prestigiosa e sorprendente al fine di raggiungere risultati di autentica poesia.
La stessa tecnica verrà ripresa dall’artista nella sua ultima opera, “Le testament d’Orphée”, intelligentissimo monumento di immagini che Cocteau volle dedicare a se stesso per concludere la propria attività cinematografica.
Queste le tappe essenziali. Ci sarebbero ancora da ricordare il meno riuscito “L’aigle à deux têtes” ed i molti commenti parlati per cortometraggi scritti da Cocteau, fra cui quello di “Romantici a Venezia” dei nostri Emmer e Gras.
Com’è evidente, fra i film sopra elencati non se ne può indicare uno solo che non rechi, nettissima, l’impronta, del suo autore, uno solo costruito per fini decisamente commerciali, uno solo banale, di mestiere. Anche nel cinema Cocteau ha fatto quello che ha voluto, obbedendo unicamente alle esigenze della propria ispirazione. Di nessun professionista, neppure dei più egregi, si può dire qualcosa di simile. Inoltre Cocteau fu quasi sempre soggettista, sceneggiatore, regista delle proprie opere; intervenne in modo determinante nella scenografia, nella fotografia, nella musica. Persino il suo interprete più assiduo, Jean Marais, è una sua esclusiva creazione.
Innegabilmente anche i dilettanti sono spesso autori “totali” dei propri film sebbene abbiano perso l’abitudine di obbedire alla propria ispirazione (quand’anche ne abbiano una). Ma non per questo, dobbiamo ripeterlo, le opere di Cocteau sono paragonabili alle loro e neppure si può dire che i suoi film possano servire da esempio ai cineamatori. Se mai, possiamo considerare esemplare la posizione di Cocteau nei confronti del cinema. Ma i risultati artistici della sua libertà nell’arte sono anche effetto dell’intervento dell’industria cinematografica, i cui mezzi gli furono messi a disposizione per le garanzie che, comunque, offrivano il suo prestigio, la sua qualificazione tecnica, la sua arte.
L’interessamento di Jean Cocteau nei confronti dei cine amatori si deve, probabilmente, al fatto che le persone intelligenti si interessano sempre a qualsiasi manifestazione umana; i film dei dilettanti sono spesso tests umani di straordinario interesse. Durante le proiezioni di Cannes, alle quali talvolta assisteva, Cocteau, forse, guardava sullo schermo ciò che i film degli amatori inconsciamente rivelavano: lo sforzo dell’uomo per manifestare ed esprimere se stesso, quasi sempre tentando di apparire quel che non è. Dietro l’artista dilettante egli vedeva il provinciale ambizioso, il giovane promettente, l’intellettuale sterile; riconosceva quell’umanità velleitaria tipica di ogni ambiente dilettantistico. Comprendeva ed amava, lui che aveva saputo essere sempre e solo quello che era.
Guido Carraresi in editoriale “L’altro cinema”, n.118-119 nov-dic. 1963
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