Nel film di Tamara von Steiner, progettato e prodotto dall’associazione Cineanima di Giuseppe Candura, scopriamo che non è più una questione di vedere o non vedere. Ci sono delle aperture in cui sprofondiamo, dei momenti che rapiscono lo sguardo
Ci vuole poco ad essere ingoiati dalle seduzioni dell’imbonitore di turno. Che sia cinema, che sia tv, che si voglia praticare il linguaggio delle immagini e dei suoni, quando poi tutti credono, pensano, giurano di aver visto, sentito, capito. Ed invece sono stati ingannati.
Prendete un “buon” film, della fiction di denuncia, un argomento, un tema “scottante”. E ci fate anche il dibattito – ma solo quello sul tema trattato dall’opera e non sul film come si fa ormai da venti-trent’anni – e continuate a non capire, anzi continuate a credere di aver compreso tutto: il film, il tema trattato.
E invece in quel film c’erano soltanto attori, bravi per carità, in cui baluginava la verità di qualcosa, ma non era la verità. Ed anche l’ambientazione del film, ricostruita su un set “falso” vi era piaciuta, perché era “realistica”. Così continuate a vedere opere che cercano sempre di simulare qualcosa di vero, ma l’autenticità di un film sapete ancora in cosa consiste?
Con Delinquenti è giocoforza una lotta tra quello che vediamo e quello che gli attori in qualche modo mettono in scena di se stessi. Lo sappiamo già da tantissimo tempo, che basta accendere una videocamera per cambiare la realtà. Perché in fisica è ormai conosciuto da anni il fenomeno dell’osservatore che modifica l’oggetto osservato. Allora perché stupirsi, se da sempre questo riguarda il cinema?
Sì, ma allora dov’è l’autenticità di un film? Quando possiamo dire, gridare che quell’opera ci ha convinto per la sua naturalezza?
L’unica possibilità è lo stato e il movimento dell’occhio. L’ha detto Kubrick: “Eyes Wide Shut”, “occhi aperti sbarrati”. Che in qualche caso potrebbero essere quelli di Arancia meccanica. Per esempio i detenuti dovrebbero rivedere sadicamente i loro delitti. Per capire!
Invece, nel film di Tamara von Steiner, progettato e prodotto dall’associazione Cineanima di Giuseppe Candura, scopriamo che non è più una questione di vedere o non vedere. Ci sono delle aperture in cui sprofondiamo, dei momenti che rapiscono lo sguardo. Sono i primi piani dei detenuti. I loro visi, i loro corpi che si agitano sono il film, tutto il resto conta davvero poco.
Non appena lasciamo la corporalità - percepita in tutta la sua drammaticità dalla fotografia di Irma Vecchio - di questi organismi “delinquenti” tutto diventa banale, è coreografia, infausta retorica buonista: il prete ripreso di spalle mentre sale le scale, la volontaria catechista che le spara grosse su tutto, nonostante la sua generosa compassione, l’ironia grossolana e forzata del funzionario, le smorfie grottesche delle guardie carcerarie che scrutano di traverso in macchina. Ma poco importa, non è certo un punto negativo per il film, anzi! Ci aiuta a cogliere la sproporzione tra Vero e Falso, tra necessaria autenticità del dolore e fracassona elemosina. La seconda, anche se in buona fede, è insopportabile da vedere, ma ben venga anche questa. Perché la seconda “visione” in fondo dimostra l’inautenticità di sé rispetto alla prima. I detenuti non recitano, vivono, tutti gli altri personaggi si mettono in scena! Allora è proprio come dice il prete: “come si confessano i detenuti, non si confessa nessuno di quelli fuori”.
Anche le celle e i pochi ambienti ripresi all’interno del carcere Ucciardone, costituiscono un momento imprescindibile. C’è una scelta tecnica, quella di filmarli restringendo il più possibile lo spazio, i metri sembra che diventino centimetri. Perfino il cortile esterno viene ripreso in un campo medio piuttosto stretto, prima di fissare l’inquadratura sul cadavere di una rondine spazzata dai detenuti che puliscono.
Delinquenti, che fa parte di un progetto per la legalità che ha coinvolto le scuole e prevede una pubblicazione con annesso dvd, va allora diffuso, e non solo in tv (andrà di nuovo in onda il 23 maggio alle 17,00 sul canale Rai Storia) con professionisti della Giustizia o di altro, prima di tutto per quel che è: un momento di verità dello sguardo, di cinema puro e non di squallida simulazione di sentimenti prefabbricati nell’alveo edulcorato di qualche sceneggiatura.
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