Ritratto di Roberto Donati
Autore Roberto Donati :: 1 Aprile 2014

Gillo Pontecorvo e la sua "storia d'amore" con la Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia

Presente al Lido di Venezia dal 1932, la Mostra (inizialmente Esposizione) Internazionale d’Arte Cinematografica[1] è il festival di cinema più antico nel mondo: nato nell’ambito della XVIII Biennale di Venezia sotto gli auspici del Conte Giuseppe Volpi di Misurata, dello scultore Antonio Maraini e di Luciano De Feo, Segretario Generale dell’Istituto Internazionale per il Cinema Educativo, con sede a Roma, nonché primo Direttore e selezionatore. Durante il festival viene assegnato il Leone d’Oro che, insieme all’Oscar, alla Palma d’Oro del Festival di Cannes e all’Orso d’Oro del Festival di Berlino, risulta essere uno dei massimi riconoscimenti per l’arte cinematografica a livello mondiale.

Quando Gillo Pontecorvo, nel 1992, accetta[2] la chiamata del Consiglio Direttivo della Biennale di Venezia per dirigere la 49ª Edizione della Mostra, il regista pisano aveva già vissuto il Festival di Venezia da protagonista, avendo appunto vinto un Leone d’Oro nel 1966 per La battaglia di Algeri, e si era già distinto per le sue qualità di organizzatore e promotore culturale. Poco più di un lustro prima, nel 1985, insieme a Felice Laudadio, aveva dato vita a La Maddalena, in Sardegna, al Premio Solinas[3], la più antica manifestazione italiana dedicata alla scrittura per il cinema, debitamente intitolata a quel Franco Solinas prestigioso sceneggiatore di opere quali, per restare solo nell’ambito della filmografia di Pontecorvo, Giovanna (1955; mediometraggio inserito nel collettivo La rosa dei venti), La grande strada azzurra (1957; lungometraggio d’esordio per Pontecorvo, non solo cosceneggiato da Solinas, ma tratto dal suo romanzo Squarciò), Kapò (1960), La battaglia di Algeri (1966), Queimada (1969). Non solo: nel 1992, a settantatré anni, lontano dai set cinematografici da quasi tre lustri (gli anni Ottanta sono stati perlopiù un decennio di riflessione politica e di ricerca documentaria, come testimonia L’addio a Enrico Berlinguer, realizzato proprio nell’anno della morte del Segretario Generale del PCI, il 1984), Pontecorvo aveva ripreso uno dei temi a lui più cari e aveva realizzato, insieme al figlio Marco, operatore e direttore della fotografia (oggi anche regista), un documentario per la RAI, Ritorno ad Algeri, sorta di rivisitazione della città, già teatro del suo set più importante, in un crocevia politico e sociale decisamente mutato rispetto ad allora.

La carriera del Pontecorvo cineasta, il suo impegno per la promozione di un cinema che unisse alle qualità estetiche una funzione – o quantomeno una tensione – sociale, la rinnovata – seppur contenuta – produttività autoriale: sono, tutti questi, motivi necessari, ma non sufficienti, da soli, a comprendere appieno l’orizzonte di motivazioni che hanno condotto alla nomina di Gillo Pontecorvo a Direttore del festival lidense. È il 1992, e il nostro cinema deve molto al cineasta toscano, non solo per il costante impegno dei suoi film, ma anche e soprattutto per la solerte e feconda presenza nei delicati ingranaggi delle realtà istituzionali, dove ha positivamente operato per l’affermazione del cinema – e del suo primato nell’universo mediale – e, marcatamente, del cinema italiano, attraverso una generosa e lungimirante apertura, del tutto contemporanea, alle nuove tecnologie, alle prospettive di un’alleanza intercontinentale con il cinema “latino”, alla necessità di dialogo fra cineasti europei e statunitensi, alle problematiche del rapporto fra cinema e linguaggio audiovisivo da un lato e, dall’altro, della didattica volta ad alfabetizzare, in tale direzione, gli studenti delle scuole pre-universitarie, dalle classi elementari a quelle delle scuole medie superiori.

Pontecorvo accetta l’incarico dopo una prima serie di riflessioni e di titubanze; sostanzialmente, non si sente pronto e preparato all’incarico, non si sente aggiornato. Sente, ovvero, che avrà bisogno di tutta una serie di consulenti, nonché di un braccio destro, che troverà nella persona di Giorgio Gosetti. Alla fine, convinto pure dall’unanimità della decisione operata dal Consiglio della Biennale, accetta; ma non a malincuore né con sentimento di ripiego. Anzi, con la stessa operatività e combattività espresse come cineasta. Nonostante ciò, come si evince dalle cronache dell’epoca, «con tipico amore italiano per la polemica – e tipico autolesionismo – “la gestione Pontecorvo” venne attaccata da alcuni giornali ancor prima che la sigla con il Leone di San Marco comparisse a inaugurare sullo schermo della Sala Grande la Quarantanovesima Edizione del Festival. E negli anni successivi, a fronte di un crescente successo della Mostra, di un Lido sempre più vivace e pieno di gente, di film e ospiti importanti, ogni tanto è scoppiata l’inevitabile polemica, sui film non invitati – un esempio per tutti, Gli spietati (Unforgiven) di Clint Eastwood, che a Gillo non piacque particolarmente, su cui meditò troppo a lungo e che invitò troppo tardi – e su quelli invitati, il caso più eclatante essendo Bambola di Bigas Luna, che Gillo non vide perché lasciava quasi completamente la regia delle Notti ai suoi collaboratori e che fu invitato dalla coppia Bignardi-Gosetti nella convinzione, evidentemente errata, che fosse un divertente esempio di mélo-sexy made in Europe, al posto giusto nell’atmosfera popolare delle Notti veneziane, e adatto a ravvivare, pensava anche Gillo, una giornata festivaliera un po’ smorta»[4].

Niente di così preoccupante, a dire il vero: è la natura stessa di un evento culturale e mediatico di questo tenore a imporre reazioni favorevoli innestate/alternate/segmentate da altre di segno opposto. È la natura stessa dell’incarico a esporre il fianco alla critica, ora benevola, ora malevola. In una prospettiva del genere, come sempre è accaduto e come sempre accadrà, Pontecorvo ha avuto i suoi pro e i suoi contro, e in entrambi i casi né gli uni né gli altri sono passati inosservati. C’è stato chi ravvisava soltanto, o quantomeno soprattutto, i venti positivi, capaci di trasportare semi fertili, giovani, di innovazione, a fronte di chi testimoniava, forse un po’ troppo parzialmente, la sostanziale ipocrisia nel rivolgersi ai giovani in un momento in cui erano (sono?) proprio le vecchie generazioni quelle cui il cinema ha smesso di rivolgersi, sia come industria che come arte.

Ha importanza, più di quindici anni dopo, indicare chi ha detto o fatto cosa, cavalcando ora l’onda o puntando invece l’indice a seconda del gusto e del parere personale, cercando di trovare, col senno di poi, una via definitiva alla ragione? A nostro avviso no; o meglio, ne capiamo il senso, per così dire, “storicistico”, ne apprezziamo la portata documentale ma, nondimeno, non gli tributiamo il requisito della necessità, preferendo dunque lasciare intuire le varie correnti senza marcarle a fondo, senza definirle. Siamo infatti convinti che il lascito di Pontecorvo Direttore di Venezia, quale che sia il pensiero di fondo che informa la memoria di quel periodo, abbia di fatto prodotto un quinquennio importantissimo di testimonianze in merito a un oggetto sfaccettato e problematico ma pur sempre animato da straordinarie virtù comunicative: il cinema.

È il 1992, si diceva, e sono appunto gli anni del rilancio del maggior festival italiano, iniziato lungo tutto il decennio precedente grazie a direttori altrettanto illuminati e operosi. Già dal 1979, anno di ingresso in carica del regista Carlo Lizzani, si registrò la sensibile e precisa volontà di restituire prestigio internazionale alla Mostra. Ai film in Concorso, sezione consolidata dalla tradizione dei premi, furono affiancate tutta una serie di importanti retrospettive, che finiranno per rappresentare una formula capace di imporsi a lungo come modello di festival nel mondo: si spaziava dalle sezioni dedicate alla ricerca (“Officina”) a quelle, come “Mezzogiorno-Mezzanotte” ideata dal compianto Enzo Ungari, incentrate sull’attrattiva dell’evento filmico spettacolare.

Basti pensare che, nonostante una dirigenza di medio termine (1979-1982), durante la Mostra di Lizzani furono presentate riedizioni di film eccentrici (La donna che visse due volte [Vertigo, 1958] di Alfred Hitchcock, Femmina folle [Leave Her to Heaven, 1945] di John Stahl), oppure mostri del box-office mondiale quali, entrambi di Steven Spielberg, Indiana Jones e i predatori dell’arca perduta (Raiders of the Lost Ark, 1981) ed E.T.-L’extraterrestre (E.T., 1982), o ancora L’impero colpisce ancora (Star Wars: Episode V-The Empire Strikes Back, 1980) di Irvin Kershner, secondo – o meglio, quinto – episodio della saga delle “guerre stellari” lucasiane, lo smisurato I cancelli del cielo (Heaven’s Gate, 1980) di Michael Cimino, addirittura l’horror Poltergeist (id., 1982) di Tobe Hooper.

Caratterizzata, quasi ossimoricamente, da fermenti di novità (il consolidamento della cosiddetta New Hollywood di Lucas e Spielberg, fra gli altri, quali nuovi “reggenti” della rinata industria hollywoodiana, ormai pronta a rivivere i fasti di quell’âge d’or che circa un quarantennio prima ne aveva sancito la semi-egemonia sul mercato globale) e consolidamento di tradizioni (la contemporanea riscoperta del classico, la vocazione “archeologica” e “museale” che informava alcune retrospettive), la Mostra sembra indovinare, in quegli anni, il giusto equilibrio fra arte e industria, fra ricerca/sperimentazione e appetibilità presso il grande pubblico. Accanto alla riproposizione di grandi titoli statunitensi, sono per dire gli anni dell’assurzione definitiva al rango di “piccoli maestri” da parte di coloro che furono tra i più fervidi animatori del Nuovo Cinema Tedesco: Margarethe Von Trotta (prima donna a ricevere il Leone d’Oro, nel 1981, con Gli anni di piombo [Die blaierne Zeit]), Werner Herzog, Rainer Werner Fassbinder, Wim Wenders… Proprio quest’ultimo, del resto, con la costante oscillazione fra ricerca e mercato che ha caratterizzato l’intero arco della sua filmografia, si potrebbe eleggere a ideale paradigma di questa duplicità di orientamento e di criteri di selezione. Un festival vivo e attivo non promuove o afferma soltanto; la sua missione è forse, soprattutto, quella di scoprire: cinematografie neglette ai grandi mercati o ricolme di fermenti creativi ancora sotterranei (l’allora Jugoslavia del bosniaco Emir Kusturica, raffigurata con piglio surreale e derive memorialistiche in Ti ricordi di Dolly Bell? [Sjećaš li se Dolly Bell, 1981]), cinematografie o singoli cineasti tendenti all’isolamento (l’Inghilterra del Peter Greenaway di Il mistero dei giardini di Compton House, [The Draughtsman’s Contract, 1982], suo trampolino di lancio presso il grande pubblico), identità cinematografiche in crisi o vittime di fasi di empasse stagionali (è il caso del nostro cinema, che assiste proprio in quegli anni a un ricambio generazionale, proponendo nuovi autori e nuovi stili: Nanni Moretti, Gianni Amelio, Marco Tullio Giordana, Franco Piavoli, Paolo Benvenuti).

Quello inaugurato da Carlo Lizzani è di fatto un nuovo corso[5], che si consolida nella successiva direzione artistica, quella di cui si fece carico a partire dal 1983 da Gian Luigi Rondi, richiamato in carica dopo le dimissioni del 1972. Il nuovo Direttore Artistico torna a essere un esponente della critica ma, dall’alto della sua ultradecennale esperienza, Rondi comprende a fondo i segnali positivi lanciati e accolti durante la precedente gestione, e perseguendo di fatto una politica organizzativa sostanzialmente affine a quella di Lizzani, lancia la sua nuova prima edizione con lo slogan «Mostra degli autori, per gli autori».

In un festival che risulterà essere sempre più accentrato e organizzato, dalle sezioni utilmente istituzionalizzate, l’autore, il regista, diviene la figura preminente da salvaguardare e da promuovere, persino da mettere al riparo dalle ultime tendenze alla devolution autoriale, che dalle frange più moderne della critica e della teoria del cinema premevano verso una demitizzazione e un sostanziale ridimensionamento della figura del regista come incarnazione inconcussa dell’autore-demiurgo. Si dà spazio ai maestri del cinema di ieri e di oggi e, coerentemente con questo pensiero, nel corso del suo primo anno Rondi compone una giuria di soli autori, tutti emersi negli anni Sessanta, e la fa presiedere a Bernardo Bertolucci.

L’anno successivo, 1984, vede la luce la SIC, Settimana Internazionale della Critica, sezione gestita autonomamente dal Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani con il preciso intento di valorizzare le opere prime e seconde. Sono anni, quelli di Rondi, variegati e polimorfi: di conferme (Jean-Luc Godard, Agnés Varda, Leone d’Oro nel 1985 con Senza tetto né legge [Sans toit ni loi]), di intuizioni azzardate ma vinte (nel 1985 viene presentata la saga fluviale di Heimat, [id., 1984], di Edgar Reitz), di scommesse e tentativi (Blade Runner [id., 1982], di Ridley Scott).

Una volta individuata la formula più appropriata, la gestione Rondi si impegna soprattutto a preservarne le strutture portanti senza apportare variazioni sostanziali, con il rischio che il mantenimento inconcusso di una prassi abbia la meglio sull’innovazione. Ecco dunque palesarsi, in dirittura di scadenza di mandato e sostanzialmente in concomitanza con l’affiorare dei primi segni di stanchezza della “formula”, la necessità di un nuovo cambio al vertice.

Il quattordicesimo Direttore della Mostra è ancora una volta di estrazione eminentemente critica: si tratta Guglielmo Biraghi, scrittore, per anni critico cinematografico de Il Messaggero di Roma, già direttore del Festival di Taormina. Tuttavia, esploratore e linguista per passione e per doti naturali, Biraghi, dal 1987 al 1991, si distingue proprio per il gusto della ricerca e della scoperta di autori e cinematografie inusuali. La Mostra compone idealmente una cartografia di ricchezza ed eclettismo straordinari, esplorando le molteplici declinazioni del cinema in direzione dei quattro punti cardinali, con medesimo spirito libero e democratico, franco da tare ideologiche o politiche: è il sentimento per il nuovo, per il diverso, per il non comune, ad animare il mandato di Biraghi.

Nel 1987 il Concorso presentò un film indiano, uno libanese, uno svizzero, uno norvegese, uno coreano, uno turco. Due anni dopo, fu la volta di un film proveniente dalle isole del Capo Verde. La Mostra di Biraghi si contraddistingue, sin dal suo primo apparire, come ordinata, snella (Concorso, Settimana Internazionale della Critica, Omaggio d’Autore – nel 1987 fu il turno di Joseph L. Mankiewicz), apprezzata dagli addetti ai lavori. Si premiano veterani dei festival (Louis Malle con Arrivederci ragazzi [Au revoir, les enfants, 1987]), si scoprono registi esordienti (Carlo Mazzacurati per l’Italia, David Mamet per gli Stati Uniti), non si rinuncia ai grandi spettacoli di intrattenimento o d’autore, perlopiù collocati Fuori Concorso (Gli intoccabili [The Untouchables, 1987] di Brian De Palma, The Dead-Gente di Dublino [The Dead, 1987] di John Huston).

L’immediata chiarezza del palinsesto dell’esordio biraghiano si conforma diversamente negli anni successivi, ma non perde la sua fruibilità. Il programma viene implementato con le sezioni Orizzonti, Notte e con gli Eventi Speciali, che nel 1988 ospita il film scandalo L’ultima tentazione di Cristo (The Last Temptation of Christ) di Martin Scorsese. Le successive edizioni sono tese in maniera ancora più acuta a rivelare nuovi talenti – Pedro Almodóvar (Donne sull’orlo di una crisi di nervi [Mujeres al borde de un ataque de nervios, 1988]), ma anche l’animazione mista di Chi ha incastrato Roger Rabbit? (Who Framed Roger Rabbit?, 1988) di Robert Zemeckis – e a svecchiare l’antica concezione di festival come luogo austero e vagamente ampolloso con la presenza di un exploit comico internazionale come Un pesce di nome Wanda (A Fish Called Wanda, 1988). Nella Settimana Internazionale della Critica si mette in evidenza Mike Leigh con Belle speranze (High Hopes, 1988) mentre il Leone d'Oro viene vinto da La leggenda del santo bevitore di Ermanno Olmi.

Il 1989 è invece l'anno di Krzysztof Kieślowski e del suo Decalogo (Dekalog, 1988), ovvero i Dieci Comandamenti “laici” del cineasta polacco, proiettati uno al giorno, che polarizzano al Lido l'interesse di stampa e pubblico. Protagonista di quell'edizione, insieme a Kieślowski, è Nanni Moretti con il discusso Palombella rossa, escluso dal programma principale della Mostra e inserito nella Settimana Internazionale della Critica; grande successo riscuote anche il terzo capitolo della saga di Indiana Jones (Indiana Jones e l’ultima crociata [Indiana Jones and the Last Crusade, 1989] di Steven Spielberg). Il Leone d'Oro assegnato al film di Taiwan Città dolente (Beiquing chengshi, 1989) di Hou Hsiao-hsien allarga lo sguardo sul cinema asiatico meno conosciuto, preannunciando un'attenzione da parte della Mostra che si prolungherà – e amplierà – per tutto il decennio successivo. Le ultime edizioni dirette da Biraghi si caratterizzano di nuovo per la varietà della selezione e per l’inserimento di giovani talenti americani, come Spike Lee e Gus Van Sant, accanto ad autori consolidati e riconosciuti come Martin Scorsese (presente nel 1990 con Quei bravi ragazzi [Goodfellas]) o Jean-Luc Godard.

Scaduto il mandato di Biraghi, il 1992 è dunque l’anno di Pontecorvo. Era dai tempi di Lizzani che il mandato lidense non veniva affidato a un cineasta. La direzione Pontecorvo durerà fino al 1996, dalla 49ª alla 53ª edizione. Sarà questo un quinquennio seminale per il futuro della Mostra, in cui l’evento lidense sarà costretto a confrontarsi con un clima culturale radicalmente mutato nel corso del decennio successivo, nonché – in prima istanza – con un paesaggio sociale e politico di problematica e farraginosa transizione. È sotto la gestione Pontecorvo che la Mostra si affaccia sull’Italia della Seconda Repubblica e del primo Governo Berlusconi, costretta a confrontarsi con quel senso di smarrimento e disincanto, di perdita di punti di riferimento – prima di tutto ideologici – e di sicurezze, che contraddistingue questa delicata fase di transizione del paese.

Gli orientamenti della direzione Pontecorvo si caratterizzano subito in maniera peculiare e personalissima: il regista, pur non rinnegando l’idea di scoperta e valorizzazione del “nuovo” che aveva informato, a vari livelli e con esiti differenti, il lavoro dei suoi predecessori, punta con maggiore convinzione su opere che abbinino alla ricerca formale un discreto coefficiente di spettacolarità nonché, preferibilmente, una sorta di disponibilità testuale a farsi permeare dalla temperie sociale e politica del periodo, a prescindere dalla latitudine dalla quale provengono. Sentimento civile e intrattenimento, oltre ad aver animato il cinema di Pontecorvo, sono parole d’ordine che ricorrono lungo questo nuovo incarico.

«Secondo me, Venezia deve diventare la trincea avanzata di questa battaglia per la difesa e la riapertura di spazi liberamente creativi. Facendo così riusciremo ad avere l’appoggio di tutto il mondo. Tuttavia, sempre secondo me, il 95% del cinema è puro intrattenimento; così, accanto alla trincea, ci sarà di nuovo la sezione di mezzanotte dedicata al grande spettacolo. Lo scopo è quello di evitare che l’umanità sia defraudata di questa arte moderna che può dare arricchimento alla cultura»[6]. E di «grande spettacolo» saranno infatti stracolme le passerelle delle soirées alla Sala Grande di quegli anni, pullulanti di divi e, quale naturale conseguenza, di appeal per le grandi platee.

L’intenzione pare, appunto, quella di sfruttare il glamour, la riconoscibilità delle vedettes internazionali, per veicolare sostanzialmente cultura cinematografica, distillata, al di fuori dei grandi eventi ad alto tasso di mondanità, in una selezione rigorosa e fantasiosa al tempo stesso. Le intenzioni dei curatori delle “Notti Veneziane”, Irene Bignardi e Giorgio Gosetti, sono proprio quelle di evitare le tendenze festivaliere all’appiattimento e alla ripetitività, e al tempo stesso di promuovere e incentivare nuove forme di spettatorialità festivaliera, indirizzate prevalentemente a «un pubblico giovane e vasto, più propenso alla festa e alla spettacolarità che a un cinema di ricerca»[7]. Un compromesso magari discutibile, e forse non sempre puntuale, ma che si è tradotto presto in risultati concreti e visibili. D’altra parte, infatti, e qui risiede l’intervento più meritorio operato presso la Mostra dalla gestione pontecorviana, il regista pisano intese fare – e di fatto vi riuscì – di Venezia un festival che, pur mantenendo una connotazione identitaria e culturale affatto apostatica rispetto al proprio passato, risultasse di forte interesse anche e soprattutto presso il pubblico più giovane, spostando il baricentro della manifestazione verso fasce d’età e grumi d’interesse fino a quel momento estranei a tale tipologia di evento, e riuscendo di conseguenza a svecchiare modalità istituzionali, tradizioni, riti e liturgie consolidati.

Come si evince dalle belle pagine «estorte a uno smemorato» da Irene Bignardi, tutto ciò risponde a un preciso proposito morale, assunto che del resto ha caratterizzato tutta la vita e la carriera di Pontecorvo, un impegno gravoso ma pur sempre vissuto con «la leggerezza, l’ironia, l’entusiasmo, l’onestà, la fanciullesca capacità di reinventarsi, la francescana semplicità di un uomo che ha saputo vivere da ricco e da povero, che si è guadagnato il pane giocando a tennis e facendo film, che ha combattuto nella guerra partigiana e girato caroselli, indifferente al denaro, sempre coerente con un’ideologia più morale che politica»[8].

Nominato prima semplice Curatore[9] e solo dall’anno successivo Direttore in carica, Pontecorvo si presenta sostanzialmente con tre parole d’ordine: fare di Venezia la capitale degli autori cinematografici[10]; riportare fisicamente al Lido i grandi registi e divi del cinema; rivitalizzare con la presenza dei giovani la zona del Palazzo del Cinema. Il regista pisano riuscirà nei suoi intenti con una serie ingente di eventi e iniziative “collaterali”, volte a offrire un adeguato apparato paratestuale all’evento-film, collocando quest’ultimo all’interno di un palinsesto ben più complesso e articolato rispetto alla mera rassegna di pellicole.

L’intento principale di Pontecorvo era la creazione di un festival-sanatorio dedicato alla cura di quello che lui chiamava «malato»: il cinema, troppo spesso afflitto dalle pastoie di una logica amministrativa e – peggio ancora – di una burocrazia ottuse, che poco avevano e hanno a che fare con le peculiari attitudini comunicative della Settima Arte. È in quest’ottica che la mano alacre e ribelle di Pontecorvo si avverte con più efficacia: nel tentativo, di fatto andato a buon fine, di ripensare la natura e dunque la struttura stessa della manifestazione, da una parte snellendo e svecchiando i programmi e dall’altra pensando ai giorni del festival come a un’occasione unica di incontro, scontro, discussione, per coloro che, in una misura o nell’altra, fanno ruotare parte della loro esistenza pubblica, o semplicemente della loro passione, intorno all’oggetto-film.

È in questa direzione, seguendo una triplice priorità, che si delinea l’orientamento di Pontecorvo. La “politica degli autori” lancia in orbita le opere prime di giovani esordienti italiani come Mario Martone (Morte di un matematico napoletano, tra le grandi sorprese del Concorso del 1992[11]), Aurelio Grimaldi (La discesa di Aclà a Floristella, 1992), Carlo Carlei (La corsa dell’innocente, 1992), Paolo Virzì (La bella vita, 1994), ma è attentissima anche alle nuove leve e ai freschi fermenti mondiali, spesso protagonisti di imprevedibili mutazioni autoriali (è il caso dell’ex-bad guy neozelandese del gore Peter Jackson, presente con Creature del cielo [Heavenly Creatures, 1994], e Sospesi nel tempo [The Frighteners, 1996]); o di fertili tracimazioni da un’arte all’altra (la ballerina, coreografa e a tempo perso filmmaker “strutturalista” inglese Sally Potter, con Orlando [id., 1992]; lo scrittore e regista irlandese Neil Jordan, autore dello scandaloso La moglie del soldato [The Crying Game, 1992]; il pittore statunitense Julian Schnabel, con Basquiat [id., 1996]), così come alla grande tradizione autoriale del redivivo Robert Altman (il cui rilancio su scala internazionale, dopo l’appannamento – reale o presunto che fosse – degli anni Ottanta, lo si deve anche a Venezia e al Leone d’Oro assegnato nel 1993 ad America oggi [Short Cuts]), all’iconoclastia di Abel Ferrara (Fratelli [The Funeral, 1996]) e di Rolf De Heer (Bad Boy Bubby [id., 1993]), alle scommesse vinte di Michael Radford (Il postino, 1994), e soprattutto di Milcho Manchevski (Prima della pioggia [Before the Rain]) e Tsai Ming-liang (Vive l’amour [Alqing Wansui, 1994]), inatteso Leone d’Oro ex aequo nel 1994; e ancora, Lee Tamahori (Once Were Warriors [id., 1994]), Kathryn Bigelow (Strange Days [id., 1995]), Gregg Araki (Doom Generation [id., 1995]), Jane Campion (Ritratto di signora [Portrait of a Lady, 1996]).

Con i film spettacolari della sezione “Notte” sbarcano al Lido stelle del firmamento divistico americano come Jack Nicholson, Harrison Ford, Bruce Willis, Kevin Costner, Mel Gibson, Nicole Kidman, Tom Hanks, Denzel Washington, e Leoni d’Oro alla carriera come Dustin Hoffman, Al Pacino, Robert De Niro, Francis Ford Coppola (ex aequo nel 1992 con Paolo Villaggio, primo, provocatorio Leone “comico” di Venezia). I giovani diventano protagonisti della vita del Lido con l’istituzione di una giuria a loro dedicata, che opera autonomamente, sceglie e consegna il prestigioso premio ANICA alla migliore opera prima. È solo una prima idea: successivamente, grazie all’istituzione di eventi paralleli (in primis concerti rock e manifestazioni) organizzati nel piazzale antistante il casinò, prende forma definitiva l’idea di attirare alla Mostra studenti e gioventù universitaria.

Quest’ultimo è un punto nevralgico, cui Pontecorvo tiene moltissimo, che studia nei minimi particolari e al quale dedica moltissime energie: l’idea originale si evolve ben presto nella più articolata iniziativa culturale dell’Associazione Centro Internazionale CinemAvvenire[12], che proprio a partire dall’abbrivio della direzione Pontecorvo comincia a ospitare al Lido, nel corso della Mostra, studenti delle scuole superiori e delle università, selezionati tramite un apposito bando di concorso che prevede la realizzazione di temi sul cinema, sceneggiature o video. Pur nelle evoluzioni e nei successivi aggiornamenti del concorso CinemAvvenire, la proposta volle essere, ed è rimasta, binaria: didattico-educativa per quanto concerne l’aspetto prettamente cinematografico, ma anche psicologico-sociale, per la scelta dei temi e degli aspetti da trattare e su cui confrontarsi durante la parcellizzazione dei gruppi di lavoro “canonici”, quali l’organizzazione e l’assegnazione dei premi della Giuria CinemAvvenire, la redazione del daily cartaceo a diffusione gratuita e del magazine on-line dell’Associazione, l’allestimento di iniziative parallele e complementari al programma festivaliero (seminari di lettura del film, incontri con gli autori presenti al Lido, concerti).

Sono dunque anni febbrili e di intenso e radicale ripensamento del cinema e della sua funzione sociale. Per questo motivo, principalmente, si lavora in Italia ma si guarda molto anche all’estero: il Lido di Venezia diventa prima finestra affacciata sul mondo e poi vetrina dello stesso, e la volontà sembra essere quella di intercettare le istanze più significative proiettate sul panorama internazionale, che si tratti di cinema che riflette sul cinema o di cinema che si apre ai bradisismi politici e sociali del pianeta. In tal senso, l’anno cruciale è il 1994 (guarda caso anno fondativo, nel bene e – per molti soprattutto – nel male, anche in Italia, complice in prima istanza un significativo avvicendamento di governo all’indomani della fase più calda di Tangentopoli), anno in cui, sul versante del cinema-cinema, assurgono alla ribalta le cinematografie emergenti del Sud-Est Asiatico (la Taiwan del succitato Vive l’amour), mentre, sul piano del cinema impregnato degli umori della situazione politica internazionale, deflagra anche su schermo il conflitto nei Balcani (il riferimento è ovviamente a Before the Rain).

D’altronde, in quegli anni, riconoscimenti al cinema orientale si moltiplicano: oltre a Tsai Ming-liang, conquistano il Leone d'Oro tanto il cinese La storia di Qiu Ju (Qiu Ju da guan si) di Zhang Yimou nel 1992, quanto il vietnamita Cyclo (Xích Lô) di Tran Anh-hung – che in realtà, a onor del vero, è un viet-kieu, un vietnamita espatriato e naturalizzato da un altro paese, nel caso specifico la Francia – nel 1995. Vengono messi in evidenza i nuovi talenti del cinema americano: Roger Avary porta al Lido Killing Zoe (id., 1994) mentre a Cannes aveva già trionfato Pulp Fiction, da lui scritto con Quentin Tarantino; l’appena venticinquenne James Gray presenta una tragedia fosca e adulta (Little Odessa, [id., 1994]); Henry Selick rivendica insieme a Tim Burton i miracoli dell’animazione a passo uno (Tim Burton’s Nightmare Before Christmas, 1995). I nomi “di rincalzo” sono tanti: Doug Liman (Swingers [id., 1996]), i fratelli Andy e Larry Wachowski (Bound [id., 1996]), e negli anni successivi, seguendo l’onda lunga delle aperture della direzione Pontecorvo al cinema popolare, il messicano trapiantato a Hollywood Guillermo Del Toro (Mimic [id., 1997]), James Mangold (Copland [id., 1997])  e Bryan Singer (L’allievo [Apt Pupil, 1998]).

Fra le innovazioni introdotte grazie a Pontecorvo, figura anche la sezione “Finestra sulle immagini”[13] (successivamente “Nuovi territori” o “Orizzonti”, a seconda del Direttore in carica), vivace laboratorio di film e video, cortometraggi e mediometraggi, lungometraggi sperimentali o di animazione che sostanzialmente intendeva colmare il gap fra cinema alto e cinema basso, fra tradizione e sperimentazione, fra autorialità e genere e, di fatto, fu un successo mondiale tanto da lanciare un prodotto anomalo come 32 piccoli film su Glenn Gould (Thirty-Two Short Films About Glenn Gould, 1993) del canadese François Girard. Basti pensare che in questa sezione passeranno anche, nel 1996, l’anime di Mamoru Oshii Ghost in the Shell (Kōkaku Kidōtai), capolavoro dell'animazione nipponica destinato a sviluppare negli anni un vero e proprio culto; o, nel 1995, Al di là delle nuvole, il film che segnò il ritorno dietro la macchina da presa di Michelangelo Antonioni (coadiuvato da Wim Wenders).

Non solo film, in ogni caso: negli anni della direzione Pontecorvo si tengono a Venezia le "Assise Internazionali degli Autori" (1993, 50ª Edizione), si organizzano numerosi convegni, viene fondata l'UMAC (Unione Mondiale degli Autori Cinematografici) e il Segretariato Permanente degli Autori, entrambi sempre nel 1993. Tutti momenti cruciali di una politica che, appunto, è bene ripetere, tende a fare di Venezia la capitale mondiale degli autori cinematografici. Proprio dall’introduzione firmata da Pontecorvo inclusa nel catalogo della Mostra del 1996[14], leggiamo: «[…]  veniamo ora a esaminare la linea politico-culturale della Mostra nelle ultime cinque edizioni: non esito ad affermare che essa è sempre stata determinata da un’angosciosa preoccupazione: quella di trovarsi di fronte a un cinema che, a livello mondiale, sta affrontando gravi e crescenti difficoltà. […] Può Venezia restare estranea allo sforzo che si deve e si può fare per salvare il cinema da un contesto che potrebbe allontanarlo dalla sua preziosa vocazione naturale? […] Negli ultimi due anni, come forse ricorderete, ho sostenuto fino alla noia che i grandi festival e prima di tutti il nostro, dovevano avere il coraggio di cambiare profondamente, di ringiovanirsi. Di fronte a un cinema che ha bisogno di nuove idee, di tante nuove idee per capire come poter sopravvivere, come conservare la propria preziosa identità in uno scenario che muta a una velocità impressionante. Vi sembra che i festival utilizzino al meglio la preziosa occasione di undici giorni durante i quali, ogni anno, tante persone che fanno cinema, che scrivono di cinema […] si trovano riunite insieme?  […] Il cinema è uno strano malato cui si richiede non solo di sopravvivere, ma anche di salvare dal degrado gli altri media, continuando a offrire al loro futuro un’indispensabile fonte di contenuti, forme espressive e capacità di elaborare il vissuto collettivo»[15]. Sono parole significative, che sembrano appartenere quasi a un Direttore in abbrivio di mandato e non in scadenza, ma che con tutta probabilità Pontecorvo volle rilanciare come monito ai suoi successori, quasi a metterli in guardia – con tono perentorio ma affatto cattedratico, come era costume del regista – che l’operazione di «ringiovanimento» intrapresa era ben lungi dall’essersi conclusa.

Non è un caso se, appena l’anno successivo alla scadenza del suo mandato, il 1997, Pontecorvo, ora scevro da incombenze burocratiche, riprenda la sua attività di cineasta, e con il cortometraggio Danza della fata confetto-Nostalgia di protezione (1996-97), una fantasia ispirata al celebre balletto Lo schiaccianoci di Pëtr Il'ič Čaikovskij, chiuderà definitivamente il cerchio facendo ritorno, stavolta selezionato e ufficialmente invitato, al Lido di Venezia.

Un’eredità importante ma tutto sommato “leggera”, quella di Pontecorvo; leggera come lo spirito che, nonostante le oggettive difficoltà e le intemperie amministrative, ha animato da cima a fondo questo quinquennio di ripensamenti individuali e collettivi. Pontecorvo viene dunque sostituito, a partire dal 1997, da Felice Laudadio, ed è un passaggio di testimone naturale, si direbbe maturato “in casa” vista la storica vicinanza collaborativa fra i due. La direzione del successore, non a caso, è caratterizzata soprattutto da una forte persistenza dell’impronta pontecorviana: è un mandato di scoperte e di consolidamenti, appunto. Un mandato che, in ogni caso, rivela alla lunga anche dei tratti di peculiarità: non ha, insomma, il sapore della pura e meccanica transizione. Sotto la direzione di Felice Laudadio si rivela internazionalmente il cinema di Takeshi Kitano (noto anche come attore con il soprannome di “Beat” Takeshi), che si aggiudica il Leone d’Oro del 1997 con Hana-bi (id.). Tradizione e innovazione si respirano anche all’interno della selezione di film italiani: si spazia da autori di ormai sicuro pregio (Gianni Amelio, che infatti vince il Leone d’oro con Così ridevano, nel 1998) a nuovi sussulti artistici, con nomi del calibro di Giuseppe M. Gaudino, Roberta Torre, Alessandro d’Alatri.

L’apporto di spettatori giovani produce i suoi primi benefici effetti: a fronte di un considerevole aumento numerico sia del pubblico che della critica, si progetta e realizza in velocità l’ampia tensostruttura del PalaLido (dal 1999 PalaBNL, e da allora ribattezzato, quasi di anno in anno, in ossequio al diktat onomastico dello sponsor di turno) in Via Sandro Gallo. Risale al 2000, invece, la ristrutturazione e l’ampliamento della Sala Perla, cui fa seguito, l’anno successivo, un subitaneo ampliamento del PalaBNL e un incremento degli spazi del Palazzo del Casinò riservati ai giornalisti e ai professionisti del mondo del cinema. Il complessivo delle aree dedicate alla Mostra supera gli 11.000 metri quadrati.

Il mandato di Laudadio dura due anni, e di altri due anni è la reggenza del successivo direttore, Alberto Barbera, oggi Direttore del Museo del Cinema di Torino.

Proseguendo in autonomia quella “politica del nuovo” propria di Pontecorvo, lo staff di Barbera giunge all’istituzione di una nuova sezione competitiva denominata “Cinema del Presente”. La sua è una doppia scommessa, con intenti di innovazione e originalità creativa: accanto al Leone d'Oro compare il Leone dell'Anno, che intende valorizzare film d'esordio e lungometraggi provenienti dalle zone marginali del mondo (e del mondo cinematografico), ma anche opere che si misurano specificamente con i generi. Marginalità, autorialità, spettacolarità: ancora una volta le parole d’ordine rispondono a requisiti di scoperta e di appetibilità presso le grandi e variegate masse di pubblico.

Si conferma, per esempio, la capacità della Mostra di segnalare all'attenzione internazionale i nuovi talenti del cinema americano. Si mettono in luce Spike Jonze (Essere John Malkovich [Being John Malkovich, 1999]), Christopher Nolan (Memento, [id., 2000]), Kimberly Peirce (Boys Don't Cry, [id., 1999]), Alejandro Amenábar (The Others, [id., 2001]), Larry Clark (Bully, [id., 2001]), David Fincher (Fight Club, [id., 1999]), Antoine Fuqua (Training Day, [id., 2001]), Albert e Allen Hughes (La vera storia di Jack lo Squartatore [From Hell, 2001]), Harmony Korine (Julien Donkey-Boy [id., 1999]), Tarsem Singh (The Cell, [id., 2000]). Sono giovani talenti dallo spericolato talento visivo (molti provengono dalla pubblicità o dal videoclip) ma anche autori già maturi, dalle tensioni intellettuali profonde e dalla capacità di ritrarre acutamente e in forme altamente problematiche la realtà che li e ci circonda.

Non mancano nemmeno gli eventi speciali capaci di catalizzare l’attenzione dei media e del grande pubblico, come – primus inter pares – la presentazione del film postumo di Stanley Kubrick Eyes Wide Shut (id., 1999) alla presenza della coppia protagonista Tom Cruise-Nicole Kidman, o come la visione in anteprima del documentario di Martin Scorsese sul cinema italiano Il mio viaggio in Italia (id., 1999). Il cinema italiano scopre il talento indisciplinato – e ancora tutto da misurare – di Giovanni Davide Maderna, Matteo Garrone, Pasquale Scimeca, Vincenzo Marra, Marco Bechis. Nondimeno, si definisce ulteriormente quell’attenzione orientalofila che aveva già fatto intravedere i propri prodromi durante la direzione Pontecorvo e che esploderà, in tutta la sua dirompenza artistica, con la direzione del sinologo Marco Müller. Tutti dall’Asia (Medio Oriente, Asia Centrale, Asia Orientale) provengono infatti i Leoni d'Oro assegnati durante la direzione Barbera: Non uno di meno (Yi ge dou bu neng shao, 1999) di Zhang Yimou, Il cerchio (Dayereh, 2000) di Jafar Panahi e Monsoon Wedding (id., 2001) di Mira Nair.

Prima di Müller, tuttavia, nel biennio 2002-2003 la Mostra viene affidata alle cure di Moritz de Hadeln, già decano storico del Festival di Berlino. Pur assemblata in pochi mesi, la Venezia del Direttore britannico-svizzero riesce a offrire un ampio panorama del cinema mondiale, presentando film di autori già affermati (Kitano, Leconte, Soderbergh, Končalovskij), confermando il talento di giovani registi (Mendes, De Heer, Haynes), e proponendo anche nomi nuovi come quelli di Daniele Vicari (Velocità massima) e di Lee Chang-dong (Oasis [id.]), rappresentante di quel cinema coreano proprio in quegli anni si andrà imponendo come una delle realtà più interessanti del panorama mondiale. Il film collettivo sull'attentato alle torri gemelle del World Trade Center dell'11 settembre 2001 (11 settembre 2001 [11'09''01-September 11], uno degli eventi speciali) attira l'attenzione internazionale, come del resto il film premiato col Leone d'Oro, Magdalene (The Magdalene Sisters) di Peter Mullan. Ancora una volta, evento collettivo, “mediatico”, e scavo archeologico alla ricerca di cinematografie possenti e destinate a emergere di lì a poco, sono i principi che guidano l’operato e le scelte dello staff direzionale.

Confermato nuovamente de Hadeln alla guida della Mostra, l’edizione del 2003, inaugurata da Anything Else (id.) di Woody Allen, si popola di star hollywoodiane: George Clooney, Catherine Zeta-Jones, Sean Penn, Naomi Watts, Anthony Hopkins, Salma Hayek, Johnny Depp, Bill Murray, Tim Robbins, Nicolas Cage… All’interno di una edizione tutto sommato, questa sì, di transizione, nonostante la vitalità della sezione “Controcorrente” inaugurata da de Hadeln appena l’anno precedente, è a sorpresa il cinema italiano a sparare le cartucce più interessanti: soprattutto, opere di registi affermati (The Dreamers [id.] di Bernardo Bertolucci; Buongiorno, notte di Marco Bellocchio) e di registi della generazione di mezzo come Edoardo Winspeare (Il miracolo), Salvatore Mereu (Ballo a tre passi), Gianluca Maria Tavarelli (Liberi). Ciononostante, il Leone d’Oro, assegnato da una giuria presieduta da Mario Monicelli, premia un’opera prima russa, Il ritorno (Vozvrašcenje) di Andrej Žvyagintšev.

Attesissimo da giovani e meno giovani, l’ultimo, per ora, cambio di direzione ha mantenuto promesse e aspettative. Dal 2004 a oggi (la prima scadenza del contratto quadriennale, dopo l’edizione 2007, ha visto, per la prima volta nella storia della Mostra, il rinnovo immediato del mandato), la Mostra è sotto la direzione di Marco Müller, romano ma di spirito “apolide”, poco più che cinquantenne, eclettica figura di intellettuale dalle molteplici anime (produttore, organizzatore culturale, sinologo, antropologo), nomade per vocazione e infaticabile ricercatore nonché, elemento non trascurabile, devoto e appassionato studioso della Settima Arte. Messosi in luce proprio come gran consigliere delle cinematografie asiatiche per Pontecorvo, già direttore e innovatore di numerosi festival internazionali (Rotterdam in primis, ma non va neanche trascurato il suo lavoro a Pesaro – prima dell’esperienza olandese – e Locarno – successivamente), Müller lavora ai fianchi della tradizione, da cui parte per distillarne ancora i preziosi umori dell’innovazione, della novità, della freschezza. Introduce la sezione “Cinema Digitale”, dedicata alle nuove possibilità espressive rese disponibili dalla diffusione delle tecnologie digitali; fa esplodere e rende universali le sue passioni principali, riversando sugli schermi lidensi quantità finora impensabili (anche se, in una certa misura, il processo fu proprio avviato durante la dirigenza Pontecorvo) di pellicole orientali e statunitensi, una dicotomia che non collide proprio perché tesa, da una parte, a equilibrare l’esigenza di scoperta di autori o cinematografie altrimenti destinate alla non distribuzione (sintomatico il Leone d’Oro alla carriera a Hayao Miyazaki, genio dell’animazione nipponica), e dall’altra a fare leva sulla fiducia cieca riposta verso l’inimitabile capacità spettacolare del cinema hollywoodiano; Müller crea meccanismi funzionali di attesa stabilendo la regola del “film a sorpresa” (rivelatosi poi sistematicamente, nel corso del suo primo quadrienno, un film orientale) all’interno della principale sezione competitiva; ripone assoluto interesse sulla storia dei generi cinematografici, suscitando con tattica lungimiranza l’esagitato esplodere di un pubblico giovane o giovanile e “tifoso” grazie alla disseminazione accorta di segmenti di “storie segrete del cinema”: il thriller-horror italiano anni ’60-‘70 con incursioni nella commedia pecoreccia come esordio nel 2004 (la retrospettiva Italian Kings of the B’s, organizzata da Marco Giusti e Luca Rea e patrocinata nientemeno che da Quentin Tarantino e da altri registi americani ultracitazionisti come Joe Dante, fu un tripudio scatenato di proiezioni collaterali o notturne), il cinema asiatico più sconosciuto e virulento nel 2005, la poesia del cinema russo e le eccitanti bizzarrie del cinema brasiliano di Joaquim Pedro de Andrade nel 2006, lo spaghetti-western italiano – altro fattore di  grandioso successo transgenerazionale – nel 2007.

C’è dunque un’asse di continuità sotterraneo che innerva l’avvicendarsi dei direttori all’indomani del quinquennio pontecorviano. Al di là delle evidenti continuità o discontinuità, appare evidente che, da Pontecorvo in poi, i farraginosi meccanismi del festival per addetti ai lavori, con il loro bagaglio di accademico sussiego, si sono dissolti in una formula più agile e al tempo stesso più articolata, presto rilanciata anche in altre consolidate realtà afferenti alla medesima tipologia di evento. Forse non è – e probabilmente non è mai stata – “avanguardia” pura, ma di certo ha fatto di Venezia non più uno splendido ma inerte catalogo di opere cinematografiche, bensì un luogo finalmente attivo di scambio e discussione su e intorno al presente e al futuro della Settima Arte.

[1] labiennale.org

[2] «Inizialmente ero restio ad accettarne la direzione. Ero convinto che servisse uno specialista, un uomo che conoscesse tutti gli attori, i registi, i produttori, i nuovi talenti; una persona, quindi, che fosse informata sugli sviluppi del complicatissimo mondo del cinema. Io non mi consideravo e non mi considero tuttora tale. Ma in quel momento serviva un nome conosciuto a livello internazionale, che volendo avrebbe anche potuto dare le dimissioni dopo qualche mese. Invece ci sono restato per cinque lunghi anni! Serviva il mio nome per ragioni di propaganda e per tranquillizzarmi mi affiancarono dei veri specialisti: Giorgio Gosetti e Ofelia Patti, due persone che conoscevano tutti i meccanismi e gli aspetti burocratici del Festival e che erano in possesso di tutti gli indirizzi e numeri telefonici utili per un lavoro come il nostro… Sempre in contatto con tutti, al corrente di tutto!”. Gillo Pontecorvo, in Lorenzo Letizia, Lezioni di regia, Torino, Lindau, 2004, p. 118.

[3] www.premiosolinas.org.

[4] Irene Bignardi, Memorie estorte a uno smemorato. Vita di Gillo Pontecorvo, Milano, Feltrinelli, 1999, p. 186.

[5] Gli anni del “Tutto Cinema”, come li ricorda Gianluigi Rondi in “Venezia ’92”, Rivista del Cinematografo, n. 9, settembre 1992, p. 17.

[6] Gillo Pontecorvo, “La battaglia di Venezia”, Rivista del Cinematografo, n. 1, gennaio 1994.

[7] Irene Bignardi in Marco Leone, “Pontecorvo, l’addio”, Segnocinema, n. 99, 1999.

[8] Irene Bignardi, op. cit., p. 9.

[9] Curatore è «la qualifica che definisce i “direttori” quando ci sono in ballo delle trasformazioni, e non li si può nominare per il normale periodo di quattro anni che rappresentavano la regola della Biennale prima della recente riforma». Ivi, p. 185. Tuttavia, nel corso di un recente colloquio con Picci Pontecorvo, vedova del regista, dalla quale è stata ricavata l’intervista contenuta in questo volume, abbiamo appreso che fu lo stesso Pontecorvo a preferire una carica più modesta, almeno per l’anno del suo esordio, allo scopo di tastare il terreno e verificare le sue reali possibilità di persistenza alla guida della Mostra.

[10] «Volevo fosse salvaguardato lo sforzo bestiale che da due anni facciamo perché Venezia sia la capitale internazionale degli autori di cinema». Gillo Pontecorvo, in Lietta Tornabuoni, “Prometto: meno americani”, Rivista del Cinematografo, n. 5, maggio 1994.

[11] Come ebbe a ricordarci Picci Pontecorvo nel succitato colloquio (cfr. intervista contenuta nel presente volume).

[12] Cfr. www.cinemavvenire.it e, marcatamente, www.cinemavvenire.it/articoli.asp?IDartic=2379.

[13] «Un nome un po’ fesso, che ho dovuto decidere troppo in fretta, ma una bella idea».

[14] Gillo Pontecorvo, Introduzione, in AAVV, La Biennale di Venezia. 53ª Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica. Catalogo Generale, Milano, Giorgio Mondatori & Associati Editori, 1996.

[15] Ivi, pp. XVII-XVIII.

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