Clint Eastwood festeggia il suo novantesimo compleanno il prossimo 31 maggio. L'attore regista statunitense è una delle icone più importanti della storia del cinema, capace di passare da un genere all'altro con estrema disinvoltura
Forse il ruolo in assoluto più azzeccato della sua sterminata carriera, sia nelle vesti di attore che in quelle di regista, è stato quello di Walt Kowalski, protagonista di Gran Torino (2008), in cui Clint Eastwood dirige se stesso, regalandosi un personaggio che soltanto lui avrebbe potuto interpretare senza cedere agli stereotipi: un ex veterano che ha combattuto nella Guerra di Corea, sociopatico, razzista e misantropo, scolpito sulla fisicità e sul carattere burbero del protagonista, all’insegna di una classicità monumentale e quasi “irritante” nella sua perfezione (Angelina Jolie, da lui diretta in Changeling nello stesso anno, lo definì addirittura “ridicolo” per via dell’immenso e imbarazzante talento, che gli ha consentito, nel tempo, di sfornare soltanto capolavori).
Nel 2008 Clint aveva già quasi ottant’anni e, per molti versi, il meglio per la sua carriera sarebbe ancora dovuto venire, cosa che puntualmente è accaduta con Invictus – L’invincibile, J. Edgar, Jersey Boys, American Sniper e, soprattutto, Sully e il bellissimo Richard Jewell, due storie vere che ben sintetizzano l’America narrata dal regista nel tempo: entrambe sono un atto di accusa nei confronti del trattamento che il sistema e la legge spesso riservano ai lavoratori, fino a consegnarli alla disperazione economica e allo stravolgimento delle loro vite personali.
Qualcuno ha detto che Eastwood è, per la destra americana, quello che Ken Loach rappresenta per la sinistra britannica: entrambi non hanno mai nascosto le proprie idee politiche, anche attraverso prese di posizioni talvolta bizzarre (chi non ricorda il “colloquio” con una sedia vuota, emblema della vacuità di Barack Obama, un gesto che lo stesso attore e regista avrebbe poi rinnegato?), ma, in un ipotetico confronto, il pensiero del cineasta americano è di gran lunga il più diagonale e variegato: il regista e attore, che vanta anche una breve esperienza in qualità di sindaco della fiabesca cittadina di Carmel by the Sea, si è sempre definito sì filo repubblicano, ma mai conservatore.
Anzi, sui temi etici (divorzio, diritti della comunità omosessuale, scelta libera in tema di aborto e trattamento etico degli animali) è sempre stato liberale, così come il suo cinema rude si è sempre – sorprendentemente – schierato con le donne: in Million Dollar Baby, per esempio, ma non solo, tanto da indurre autorevoli critici a indagare sul rapporto tra il grande cineasta e il cuore femminile.
Ora che ne compie novanta, di anni – è nato a San Francisco il 31 maggio del 1930 – e che, come lui stesso ha dichiarato, non ha alcuna intenzione di smettere di lavorare, è lecito chiedersi quali e quante altre mirabilia voglia ancora dare al suo pubblico che lo segue puntuale dai tempi di Per un pugno di dollari, Per qualche dollaro in più, Il buono, il brutto e il cattivo: la cosiddetta “trilogia del dollaro” diretta da Sergio Leone (per il quale Eastwood “aveva soltanto due espressioni facciali, una con il sigaro e l’altra senza”) e interpretata dall’attore statunitense di origini irlandesi, olandesi, scozzesi e inglesi, tra il 1964 e il 1966.
Gli anni precedenti non erano stati particolarmente soddisfacenti: nel 1959, la Universal lo liquidò con uno sbrigativo “Non sai recitare” ; i giudizi poco lusinghieri saranno per Eastwood una costante da parte della critica, che comincia a ricredersi seriamente sulle sue doti recitative solo a partire dalla fine degli anni settanta con Fuga da Alcatraz dove, diretto da Don Siegel, offre una prova di tutto rispetto, con una recitazione asciutta e scarna.
In qualità di film director, invece, già con Brivido nella notte (banale traduzione di Play Misty for me) nel 1971, l’allora quarantunenne attore al debutto nella direzione di un lungometraggio, comincia a mostrare a Hollywood e dintorni di non essere più ( o forse di non essere mai stato) quello degli spaghetti western, che pure gli avevano regalato un’affettuosa popolarità.
Già si cominciano a delineare con nitidezza quelli che saranno i motivi principali della sua sterminata filmografia, a partire del tema della notte americana declinata attraverso la sostanziale ambiguità dei protagonisti.
Ma è nelle doppie vesti di regista e attore, con Gli spietati nel 1992, che Eastwood – fino a quel momento identificato dal pubblico con l’ispettore Harry Callaghan, protagonista di una saga poliziesca iniziata nel 1971 e proseguita con altri capitoli nel 1973, 1976, 1983 e 1988 – si colloca definitivamente nell’Olimpo dei grandi di Hollywood, incassando ben quattro Oscar – tra i quali migliore film e migliore regista – e ottenendo l’inserimento, prima al novantottesimo posto e poi nel sessantottesimo, nella classifica dei migliori cento film di tutti i tempi dall’American Film Institute; nel 2004, lo stesso è stato scelto per la conservazione nel National Film Registry della Biblioteca del Congresso degli Stati Uniti.
Da registra, ha sempre privilegiato il racconto di storie e situazioni dominate – Gran Torino ne è l’esempio più fulgido – dal senso dell’identità del confine: memorabile l’immagine di Walt Kowalski fermo sul suo prato, o quando per difendere la sua amica, tira fuori la pistola e la punta contro i molestatori.
Amatissimo e premiato in Europa – I ponti di Madison County, Bird, Mystic River – ha raccolto al botteghino consensi straordinari, risultando star numero uno al box office nel 1972, 1974, 1984, 1985, 1994.
Cosa lo rende così unico e speciale malgrado il carattere burbero e schivo?
Forse è il titolo di un libro uscito in Italia con Minimum Fax a rivelarlo: “Fedele a me stesso”, una raccolta di interviste concesse lungo la carriera.
Cosa farà, ora?
Sicuramente, dirigerà altre storie, possibilmente vere, considerata la sua passione per il genere biopic.
Intanto, come racconta la vicina di casa Ellen DeGeneres, si rilassa e si diverte sistemando le noci sul tavolo di casa in attesa che gli scoiattoli vengano a prenderle e, a chi gli domanda come ci si senta a novanta primavere, risponde con un’ironia fuori dal comune.
“Da bambino uscivo con mio nonno, che aveva più di ottanta anni, e mi chiedevo: mio Dio, chi può vivere così a lungo?”.
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