Ritratto di Angelita Privitera
Autore Angelita Privitera :: 22 Ottobre 2014

Il regista criptico e surreale David Lynch ospite d'onore al decimo Lucca Film Festival in una affascinante lezione di cinema tra arte, misticismo e curiosità svelate. Chi è l'alter ego dei suoi film? Cosa c'entrano Kafka e la città di Philadelphia?

David Lynch

In occasione del Lucca Film Festival, lunedì 29 settembre, il pubblico ha avuto l'onore di assistere alla lezione/conversazione di cinema del maestro criptico e surreale David Lynch. Tralasciando la deludente organizzazione di quel giorno che ha costretto alcuni ad entrare con un corpo a corpo col buttafuori (compresa chi scrive) e altri a rimanere fuori con tanto di portone chiuso in faccia, nonostante ci fossero posti in piedi a sufficienza – siamo in una chiesa (pubblica) perché non si può ascoltare alzati la celebrazione del cinema? – comunque ne è valsa veramente la pena partecipare alla rivoluzione 3.0. Lynch è stato un vero e proprio mentore, da ogni punto di vista. Un artista a 360°.

L'incontro è stato moderato dal presidente del Lucca Film Festival, Nicola Borrelli, e da Alessandro Romanini, direttore del Centro Arti Visive di Pietrasanta nonché curatore della mostra Lost Vision (dedicata al repertorio fotografico di David Lynh, aperta fino al 9 novembre a Lucca). Quest'ultimo ha dato il via all'intervista soffermandosi maggiormente sulle attività multiforme, poco note ai più, di questo regista - così lo ha definito - “enciclopedico e sperimentatore audiovisivo” che ormai da anni infatti si occupa di fotografia, design, musica ma soprattutto pittura. E l'intervista inizia proprio da lì.

Vista la sua natura poliedrica qual è, secondo lei, il rapporto tra pittura e cinema?
Quand'ero giovane il mio desiderio era quello di fare il pittore. Un giorno, mentre dipingevo, vidi il mio quadro muoversi; sentii il rumore del vento che veniva da questo quadro e pensai: “Oh, un quadro che si muove”. Da lì nacque l'idea per il mio primo progetto Six Figures getting Sick Six Times, che trattava appunto di un mio quadro animato in stop-motion costituito da sei uomini che si ammalavano.  

Ecco, io vedo il cinema come un quadro in movimento con dei suoni dentro. Il cinema è suono e immagini che si muovono contemporaneamente, ma l'unica cosa di cui veramente abbiamo bisogno per fare cinema è un'idea. L'idea di cui ci si innamora. L'idea parla di te, con te, ti dice l'umore, ti dice i personaggi, come parlano, come si esprimono, ti dice la storia.

Per Inland Empire non ha seguito un copione, ma ha scritto una bozza scena per scena. Pensa di continuare a utilizzare questo approccio o ritornerà alla sceneggiatura canonica?
Inland Empire è stato concepito in modo diverso dal solito, è vero, ma comunque alla base c'era sempre una sceneggiatura, come in ogni mio film. Semplicemente perché la sceneggiatura non è altro che l'organizzazione delle idee e non corrisponde al film. Proprio come la planimetria di una casa non corrisponde alla casa. Ai tempi possedevo una piccola macchina fotografica Sony PD e con quella decisi di girare la prima idea che mi era venuta in mente per una scena, così la scrissi e la girai. Più tardi mi vennero in mente altre idee, tutte scollegate alle precedenti, ma che girai ugualmente. Solo dopo la terza idea mi arrivarono un sacco di idee che unificavano le prime scene che avevo girato. A quel punto iniziai a scrivere la vera sceneggiatura. Solitamente quando lavoro con la sceneggiatura mi vengono tante idee, scene frammentate che in seguito elaboro per far nascere la sceneggiatura. L'unica eccezione è stata la stesura di Inland Empire.

In molte interviste ha citato opere di Kafka e di Hitchcock che l'hanno influenzata. Quali sono state le sue maggiori ispirazioni o influenze?
C'è differenza tra ispirazione e influenza. Non ero un appassionato di cinema, né interessato alla storia dell'arte. Mi piace generare idee che sembrano venire dal mondo. Queste idee entrano nella mente cosciente e si svelano; tu le puoi vedere, sentire, conoscere. La mia più grande influenza comunque è stata la città di Philadelphia; l'umore, la sensazione nell'aria, l'architettura, la decadenza, la follia e la corruzione di quella città.

So che aveva in progetto la realizzazione filmica de “La metamorfosi” di Kafka. Per quale motivo non lo ha più realizzato?
Io adoro Kafka e in particolare “La metamorfosi” e scrissi la sceneggiatura basandomi su questo libro. Mentre scrivevo però pensai che ci sarebbero stati due problemi: il budget troppo grosso per realizzare l'insetto e tutto ciò che accade nella storia e inoltre sarebbe interessato solo a un pubblico limitato. Alla fine ho sentito anche il bisogno e il dovere di lasciarlo come una grande storia scritta.

Qual è il passo della Bibbia che l'ha ispirata per chiudere Eraserhead?
Racconterò una parte della storia. Quando ti viene un'idea, ti viene in mente una scena astratta che per te contiene una verità. Forse non la comprendi pienamente e trovi un significato solo dentro di te. In Eraserhead tutte queste idee fiorivano; avevo già la sensazione di ciò che fosse in superficie, ma sembrava mi parlasse anche su un altro livello. Quindi un giorno presi in mano la Bibbia, indicai ad occhi chiusi dei passi a caso. Quando li riaprii lessi quella frase, che non vi svelerò, ed ecco, capii subito di cosa si trattasse.

Un giorno deciderà di svelare come è stato realizzato il bambino di Eraserhead?
Non parlerò mai di come ho creato il bambino.

Spesso parla di cinema come forma di espressione astratta. Come avviene la nascita della struttura delle sue idee?
Tutti abbiamo la sensazione che nel mondo stia accadendo più di ciò che vediamo. Attorno alle cose concrete ci sono cose più astratte che ci arrivano sotto forma di idee e sensazioni. Il cinema ha la possibilità di mostrare queste sensazioni grazie al suo linguaggio magico, ma prima deve arrivare l'idea. Io di solito mi innamoro di alcune idee e dal momento che a me piacciono sia le cose concrete che quelle astratte, nei miei film cerco sempre idee che uniscano entrambe le cose. Poi il cinema e il film sono solo una piccola fetta della vita, nessun film può dire tutto di tutto. Nonostante ciò, l'idea va realizzata ed espressa ed è magico vedere quest'idea tradotta e proiettata sul grande schermo. A volte, dentro queste idee possono scaturire memorie del passato. Dicono che non c'è modo di imparare ma solo di ricordare, ricordare ciò che siamo. Forse il cinema può far scaturire proprio questa piccola luce e riportarci alle vecchie memorie di ciò che siamo.

A proposito di “sentire”. Il Lucca Film Festival sta organizzando un master sul rapporto tra musica e immagine. Qual è il suo rapporto tra queste due?
Il cinema è molto vicino alla musica. Così come nella musica ci sono melodie molto forti e altre molto basse, così è anche l'andamento di un film. Tutto segue un determinato passo, un ritmo che sulla carta può essere sempre lo stesso, ma che un maestro d'orchestra riesce magicamente a rendere più profondo e perfetto. Il cinema si muove nel tempo come la musica, seguendo delle transizioni che vanno da una scena all'altra, e questi passaggi devono essere scorrevoli e fluidi. Non è facile trovare la musica adatta per ogni scena, così devi provare ad inserire una musica fin quando non senti che funziona. Ma come si fa a sapere se una musica funziona o meno? Basta ascoltare tutti gli indicatori del nostro intuito e aspettare fin quando il connubio tra scena e musica diventa magico, emozionandoti.

Il tema del digitale è diventato per lei un elemento centrale della comunicazione. Come descrive questo rapporto tra la pellicola e i nuovi mezzi digitali di ripresa?
Ho sempre sostenuto che il digitale fosse superiore, perché ne sono innamorato, e lo dimostra il fatto che ho girato Inland Empire completamente in digitale. Recentemente però mi è capitato di lavorare sulle scene inedite di Twin Peaks - Fuoco cammina con me e per la prima volta dopo tanto tempo, rivedendo le immagini girate in pellicola, sono rimasto sbalordito e affascinato dalla loro bellezza e profondità.

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Però col digitale hai comunque tanti vantaggi: hai delle scene molto più lunghe, non bisogna fermare la cinepresa, i file sono molto meno pesanti, non ci sono problemi di graffio, sporco, strappo e c'è molto controllo soprattutto in post-produzione. Ma credo che, forse, questi media rimarranno tutti presenti; ogni media sarà giusto per un progetto differente.

Abbiamo visto le sue tante fotografie sviluppate e create utilizzando la tecnica della litografia. Da cosa dipende la scelta di un mezzo rispetto ad un altro?
Dico sempre che ogni media ci parla. Se stai lavorando sulla litografia e non hai mai lavorato con essa, all'inizio non sai esattamente cosa sta succedendo. È come incontrare una nuova persona, inizi a parlarle e a conoscerla. La caratteristica della litografia è che è molto organica. Io lavoro su una carta molto bella, giapponese, nera e bianca. E alla fine produco un pezzo di carta bellissimo con l'immagine, che è completamente diverso dalla stampa digitale. Ma anche gli acquerelli sono differenti dalla litografia e pure le immagini realizzate al pc sono diverse. Però questi media sono tutti molto profondi e molto belli.

I suoi film hanno una linea molto sottile, psicologica. Che tipo di lavoro fa con gli attori visto che si tratta di un lavoro più interiore?
Il trucco è far lavorare tutti insieme a te, facendo intraprendere a tutti la stessa strada. Come ottengo questo? Parlandone. Se ad esempio il reparto scenografia propone delle cose interessanti, ma che purtroppo non sono in linea con le idee, bisogna continuare a cercare fin quando non si riuscirà ad andare nella direzione giusta. Stessa cosa vale per gli attori; si fanno le prove, se ne parla con le parole, ci si avvicina sempre di più parlandone. Loro riflettono su ciò che gli dici e a poco a poco incorporeranno le idee fin quando cattureranno il personaggio allineandosi con lui. Lo stesso vale con tutti gli altri reparti coinvolti.

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Quanto di suo c'è nei suoi personaggi, ha una sorta di alter ego?
Nessuno di questi personaggi sono io.

Un suo ricordo personale di Jack Nance (protagonista memorabile di Eraserhead) e Richard Farnsworth (l'indimenticabile protagonista de Una storia vera).
Jack era una persona speciale; l'ho incontrato durante il casting di “Eraserhead” e durante le riprese siamo diventati amici. Jack poteva raccontare storie bellissime, ma lo faceva molto lentamente, con pause lunghissime. La cosa più triste è che molte persone non hanno mai ascoltato una sua storia per intero perché pensavano fosse finita ma magari era solo a metà del racconto. Una di queste storie che ricordo ancora col sorriso riguarda l'infanzia di Jack. Quando era piccolo la sua mamma gli diede un soldo per andare a comprarsi il gelato ma mentre attraversava la strada fu investito da una macchina che lo fece balzare via. Quando andarono a soccorrerlo teneva ancora il soldo stretto tra le mani
Richard Farnsworth inizialmente era un cavalcatore di rodeo, grazie al quale diventò stuntman. Era uno degli attori più spontanei e naturali con cui abbia lavorato e con un gran cuore. Mentre lavoravamo a “Una storia vera” nessuno di noi sapeva che stava morendo di cancro, ma lui nonostante stesse soffrendo tanto lavorò sodo, era un vero cowboy.
Mi mancano entrambi e mi sarebbe piaciuto continuare a lavorare con loro tante altre volte ancora.

Il suo approccio al cinema, così libero, come si è conciliato con produttori più pragmatici come Dino de Laurentis, e come è stato lavorare con lui?
Adoro Dino De Laurentis, ma non mi piaceva lavorare con lui (ride). No, in realtà non è proprio così. Il fatto è che non mi piace fare un film senza avere il final cut e per Dune è stato così. All'inizio, avendo capito com'era Dino, sapevo che non mi avrebbe permesso di decidere sul montaggio finale, quindi cercai un compromesso, cosa che non mi piace fare. È vero, ci sono molte scene che sono state girate ma non sono state inserite nel film ma è un processo normale. Non c'è mai modo di poter inserire tutto e questo comunque non era la cosa che volevo fare. In Velluto blu invece ho avuto il final cut per cui mi sono divertito molto. Volete una curiosità su Dino? Lui è un grande cuoco e come tale mi ha insegnato a preparare i rigatoni, una delle poche cose che riesco a cucinare.

Negli ultimi anni dai suoi film si ha l'impressione che ci sia meno interesse alla scrittura lineare e più attenzione alle visioni e alle emozioni. Nonostante non si capisca molto a livello razionale ci si emoziona molto. È così che vuole che sia?
È molto vicino alla verità. Alla base c'è una storia che per me ha senso ma dentro la storia ci sono cose più astratte. Il cinema ti permette di realizzarle e di andare indietro e avanti nel tempo, è magico in questo senso. Ma tu lo fai soprattutto per realizzare l'idea di cui ti sei innamorato. Le idee sono dei doni bellissimi e io sono cosi grato all'idea di cui mi innamoro ogni volta.

Come è il suo atteggiamento nei confronti dei fallimenti e dei successi?
Il fallimento in un certo senso è una cosa molto bella se riesci a superarla. Con questo atteggiamento c'è libertà perché non puoi perdere più di quello che hai già perso. D'altra parte il successo può essere terribile perché devi imparare a non cadere e a restare dove sei, quindi non puoi muoverti. Questo può far uccidere le idee che ti vengono e riempirti di paura, paura di fallire.

Proprio in questa chiesa verrà organizzato un ciclo di incontri dedicati alla bellezza eterna. Secondo lei esiste la bellezza eterna?
La bellezza eterna è rappresentata dalle donne.

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