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Autore Pierre Hombrebueno :: 1 Settembre 2014
The Cut di Fatih Akin

Recensione di The Cut di Fatih Akin: La grande delusione del concorso di Venezia 71 è una ripetitiva e stancante odissea in cui a scorrere è il vuoto narrativo, mentre Tahar Rahim cancella le sue espressioni fino a giungere al grado zero

Ma che gli sarà mai preso in testa a Fatih Akin, da sempre autore transcontinentale attento alle sfumature del linguaggio, per aver girato un film sul genocidio armeno però recitato in inglese: nulla di più inverosimile, ma una scelta che ben sottolinea come il regista stia puntando dritto al mercato statunitense, a costo di sacrificare il proprio stile. E non un'audience americana qualunque, bensì quella più assetata di drammi soap-operistici in salsa esotica: insomma, Fatih Akin s’improvvisa il David Lean dei poveri, raccontando le tragiche vicende di un uomo (Tahar Rahim) strappato alla propria famiglia.

Il cineasta prova a ficcarci qualche scena di violenza, tra sgozzamenti e pietre tirate in faccia a bambini, eppure a prevalere è una regia blanda a ritmo di sedativo, una composizione elementare al servizio di una storia dilatata fino all’insopportabile. Quello che poteva essere una dolorosa immersione nelle drammatiche vicende del 1915 diventa presto un racconto intimo che passa dalla pluralità al singolo, dalla Storia alla storia; nulla di male in tutto questo, se soltanto non si trasformasse poi in uno stancante road movie tra una città all’altra, con il personaggio principale che attraversa mari monti continenti paesi e nazioni pur di ritrovare le proprie bambine. L'autore estende il basilare plot in 138 minuti di cui almeno un terzo soffre della più fastidiosa ripetitività: a perdersi per strada, durante il viaggio, è la forza empatica e il coinvolgimento emotivo.

Akin gira in tondo e allunga il brodo fino allo sfinimento, tanto che ad un certo punto sembra di ritrovarci davanti ad una barzelletta: quelli che dovrebbero essere i casi crudeli del destino finiscono per diventare fonti di sbadiglio, mentre sullo sfondo scorre il nulla più assoluto, il vuoto narrativo che ruota attorno a sé stesso senza trovare sbocco. A stancarsi, con gli spettatori, è il protagonista Tahar Rahim, ormai senza più espressione, svuotato di contatto e mai così sprecato prima d’ora. Se il regista voleva compiere un suicidio artistico in diretta ci è pienamente riuscito: dimenticatevi La sposa turca e Ai confini del paradisoThe Cut è una pellicola debilitante, di quelle che risucchiano l'energia fino a renderti un vegetale. La grande delusione del concorso di Venezia 71.

Voto della redazione: 

1

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