Recensione di La buca di Daniele Ciprì con Sergio Castellitto e Rocco Papaleo: Un'opera pretenziosa che cerca il grottesco e il fantastico ma è solo nulla e insignificante, disinnescata da ambizioni che non stanno in piedi
Un cane, una buca usata come fonte di guadagno per spellare incauti passanti, uno spirito arraffone e guascone che si manifesta in ogni movenza e tentativo di sciacallaggio ai danni del prossimo: l’Oscar di Sergio Castellitto è un neo – Gassman misantropo e burbero, che incappa in Armando (Rocco Papaleo) ma vede in lui solo una fonte di profitto. Non sa però che Armando è un ex galeotto appena uscito di prigione dopo trent’anni di detenzione, totalmente spiantato, senza affetti e senza un soldo.
Intorno a loro si muove Carmen (Valeria Bruni Tedeschi), barista dal cuore d’oro, immersa anche lei in un mondo irreale in cui i colori lividi e la dimensione grottesca che Ciprì ha sempre maneggiato nel corso della sua carriera assumono in questo caso i contorni della fiaba sociale, sospesa a metà tra il disimpegno fatato di un’opera alla Blake Edwards in stile La Pantera Rosa e il gioco dei caratteri che da sempre contraddistingue la commedia all’italiana, quella dei cialtroni e degli ingenui (il modello aureo è quello de Il Sorpasso), delle maschere beffarde e delle prevaricazioni. Il tutto condito da una polverina magica che guarda a un cinema fantastico, fuori dal tempo, venato di nostalgia leggera come gomma piuma.
Come già nel precedente È stato il figlio, la mano registica di Daniele Ciprì si mostra però fuori controllo, troppo estetizzante e caricaturale per dare ai suoi film un giusto equilibrio e un impianto ben dosato che sappia arrivare allo spettatore nei modi e nei tempi adeguati. Se il film con Toni Servillo provava a rifare la fase più estrema e popolaresca del cinema di Ettore Scola banalizzandone lo spessore e i tic, allo stesso modo La buca annaspa intorno ai suoi modelli di riferimento non sapendo però minimamente che pesci pigliare, tra sterile citazionismo (Orson Welles, Mel Brooks…) e ingranaggi narrativi di pasta frolla, tra scene e situazioni interamente prive di giustificazione e un ritmo che deve fare continuamente i conti con una vuotezza di fondo a dir poco allarmante. Non si avverte una ragion d’essere, in ciò cui Daniele Ciprì si presta dopo la separazione artistica da Franco Maresco. La sua idea di cinema sembra infatti essersi ridotta a mero compiacimento di bisogni ombelicali, a ostentazione di soluzioni e filtri fotografici, a un passatismo sempliciotto e banalissimo che guarda indietro perché ha palesemente troppa paura di guardare avanti, di scoprirsi inadeguato e indifeso dinanzi al presente, con piedi d’argilla e ali così esili che brucerebbero anche a miglia e miglia di distanza dal sole. Il dittico Belluscone. Una storia siciliana – La buca evidenzia in modo macroscopico i limiti del Ciprì cineasta e mostra al mondo da un lato un universo cinematografico (oggi) totalmente superfluo e dall’altro il rigore ideologico e formale di un regista (ancora) necessario.
Voto della redazione:
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