Recensione di Step Up All In di Trish Sie: contenitore del best of della saga, il quinto capitolo tenta un aggancio al sociale tra danze pirotecniche, love story da sbadiglio e script non pervenuto
Squadra che vince non si cambia, al massimo si rinnova e per il gran finale si riconferma: così in questo quinto e in teoria ultimo Step Up dell’esordiente Trish Sie sono davvero tutti All In. Il protagonista, giovincello di belle speranze in cerca di fortuna, mette insieme il best of dei danzatori della serie per un concorso tv a Las Vegas (di cui il film è un gran spottone) che mette in palio un allettante contratto; per vincerlo, le crew si scontreranno su un ring vero e proprio, un’arena che ammette solo i guerriglieri migliori.
Contenitore di quasi tutto ciò che aveva caratterizzato i precedenti capitoli, Step Up All In ci aggiunge ex protagonisti (come Chadd Smith da Step Up 4, Stephen Boss da Step Up 3 e 4) e aficionados (Mari Koda, Adam G. Sevani), ammicca visivamente alla moda kitsch parasettecentesca della Capitol City di Hunger Games (la presentatrice è praticamente Elizabeth Banks/Effy), e ri-tenta un aggancio nel sociale (in tempi di crisi, il ballo non ha scopi primariamente virtuosistici) e in una parvenza di sconfortante vita reale (la corruzione del mondo dorato), ma ovviamente non prescinde dalla morale finale che ribadisce l’universalità della bontà americana (perché “l’unione fa la forza”).
Per il resto, anche stavolta i sommovimenti interni sono pari a zero, e d’altronde la saga di Step Up non ne mai avuto bisogno, considerato che va avanti sempre uguale a se stessa dal 2006, appuntamento biennale puntuale come le zanzare d’estate: quasi dieci anni, parecchio tempo per un prodotto usa & getta tanto basico ed elementare quanto micidialmente efficace per il target di pubblico a cui è indirizzato. Eppure, visto uno, visti tutti: la formula è sempre testardamente la stessa, con le danze forsennate e pirotecniche, le contaminazioni di stili ed etnie e la storiella d'amore da sbadiglio, con l'aggiunta (a seconda del capitolo) di una sortita nella terza dimensione, nella ribellione sociale attraverso le performance teatrali-avanguardistiche e quelle di strada, e nelle fratture generazionali. Immancabile è pure l’oscenità di un doppiaggio da denuncia immediata: s’invocano i pezzi di ballo non solo per l’elaborata coreografia ma anche per vedere i personaggi star zitti.
In conclusione, c’è una piccola delusione (se di delusione si può parlare, per il franchise più prevedibile del secolo) da annotare, ovvero la mancanza del pezzo forte del capostipite della serie, quel Channing Tatum ormai attore maturo che oggi, barcamenandosi tra i Wachowski e Steven Soderbergh, evidentemente non ha più intenzione di prender parte alla saga tutta sudore, muscoli, piroette, pose plastiche e dialoghi buoni per la carta igienica.
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