Ritratto di Chiara Tartagni
Autore Chiara Tartagni :: 12 Maggio 2014

Perché Francis Bacon e la sua arte tornano tanto spesso al cinema? E questo pittore, noto per la sua concezione dell'uomo come carne mortale, cos'ha in comune con Bernardo Bertolucci, Tim Burton e Christopher Nolan?

Una scena di Batman di Tim Burton

Vi sono casi di rapporti fra cinema e pittura più fecondi di altri, e soprattutto con precise tempistiche di manifestazione. È il caso di Francis Bacon (1909-1992), pittore inglese di origine irlandese, forse il più grande artista britannico del secolo scorso. Bacon è figura complessa ma non misteriosa, fortunatamente ben disposto a raccontare se stesso e la sua arte a figure intellettuali di spessore. Ci sono dunque note non soltanto per riscontro estetico ma anche per dichiarazione stessa del soggetto le sue fonti di ispirazione: dalla pittura del Seicento (su tutti Velázquez e Rembrandt) a Picasso, passando per l’opera di Matthias Grünewald, pittore tedesco che operò dalla fine del ‘400 ai primi decenni del ‘500 rifiutando il classicismo del Rinascimento per proseguire sulla via dello stile quasi espressionista del tardo Medioevo nordico. Ma l’arte a cui Bacon si avvicina con profitto è proprio il cinema, e i nomi che ammira vanno da Sergej Ejzenstejn a Luis Buñuel. Un amore del resto ricambiato, per l’abilità di Bacon nel mettere in scena l’uomo nella sua accezione più fisica, legata alla sua fine e non al percorso della sua vita: accezione percepita come assai attuale. Già nel 1973 Bernardo Bertolucci lo omaggia con i titoli di testa di Ultimo Tango a Parigi, che scorrono lenti su due ritratti. L’uomo e la donna che sembrano (?) osservarci dalla tela costituiscono il preambolo della storia, preambolo che già trasuda eros e thanatos, confondendo in anticipo nella mente dello spettatore i ruoli di carnefice e vittima. Dice lo stesso regista parmense: «La cultura inglese si nutre di dialettica, di confronto, di dialogo. Francis Bacon traeva ispirazione nella disobbedienza a questa regola. Al dialogo opponeva il suo monologo, senza perdono per gli altri e per se stesso. Della primavera del '72, mentre stavo preparando Ultimo Tango a Parigi, mi resta soprattutto il ricordo delle frequenti visite al Grand Palais, che ospitava la prima grande esposizione di Francis Bacon. Erano visite intermittenti, a due, con me nel ruolo di guida. Prima con il direttore della fotografia del film, poi con lo scenografo, con la costumista, l'ultima esplorazione fu con Marlon Brando. Volevo che i miei collaboratori più vicini si facessero affascinare e travolgere assieme a me da quella disperazione così carnale, dal quell'atroce monologo-urlo. Ricordo che i quadri erano lontani uno dall'altro, un po’ come i pianeti nell’infinito, e noi ci spostavamo in quel pericoloso infinito-Bacon. Alla fine del montaggio mi accorsi che durante quelle visite al Grand Palais era nato il cuore segreto del film. Dell'influenza che Bacon aveva avuto su tutti noi mi sembrò che fosse rimasto nel film un'allarmante sensazione di pericolo. Per questo i titoli di testa di Ultimo Tango a Parigi scorrono su due figure di Francis Bacon, un uomo e una donna»[1].

Nella Gotham City di Tim Burton, fredda, oscura e titanica, fra le strutture di ispirazione gotica create da Anton Furst troviamo il Flugelheim Museum, all’interno del quale molte persone di età media piuttosto alta si aggirano compiacenti con una guida in mano o gustano una cena raffinata con delicato sottofondo musicale. Ed ecco il Joker, il nichilista per eccellenza, l’«artista dell’omicidio» che irrompe al grido di «Signori miei, acculturiamoci un po’!», dopo essersi curato di avvelenare tutti i presenti con gas tossico. Quella che è forse la scena più famosa del Batman burtoniano (1989) risulta interessante per più di una ragione. Innanzitutto per la sua chiara funzione dissacratoria: nel nome del museo si legge chiaramente un riferimento al Guggenheim Museum di New York (così com’è interessante che il termine “flu”, con cui è stato composto il nome, significhi “influenza”, nel senso virale del termine). La sua stessa struttura, che, secondo le dichiarazioni del suo creatore, ricorda più una locomotiva che un museo[2], e le opere esposte hanno a loro volta un ruolo fondamentale: gli unici criteri che sembra caratterizzare la selezione delle opere sono innanzitutto la celebrità, la grazia (da notare la preponderanza dell’opulenta, aurea pittura olandese) o in casi particolari il legame con l’American Dream (i ritratti di Lincoln e Washington). Ma ciò che più ci interessa in questa sede è che, di tutti i dipinti presenti, il Joker sceglie di salvare proprio il feroce Figura con la carne (1954) di Francis Bacon, in cui il pittore inglese rielabora il celebre ritratto di papa Innocenzo X eseguito da Diego Velázquez nel 1650. Dando uno sguardo all’opera di Bacon, vediamo Innocenzo X tornare incessantemente, ridotto a una sorta di grido vivente, simbolo della putrefazione di quel pezzo di carne che è l’essere umano. Nel ritratto di cui il Joker dice «Questo è il mio genere», Innocenzo X è ormai una larva, quasi soffocato da lividi quarti di carne (un riferimento al Bue squartato di Rembrandt, non a caso presente in galleria con un autoritratto). È proprio la morte a imporre il proprio dominio, attraverso la figura del Joker in veste di artista postmoderno, lampante parodia di una figura che ha ormai perduto l’aura di cui godeva fino ad un secolo fa.

Attualmente, fra i registi di maggiore successo (meritato) a intrattenere con l’arte di Bacon un peculiare rapporto troviamo Christopher Nolan, che ammette di averne subito l’influenza non solo nel dare forma e volto al Joker (sì, ancora lui) di Heath Ledger in Il cavaliere oscuro (2008), ma anche a livello più concretamente concettuale, e in particolare per ciò che riguarda funzioni ed espressione della memoria: «Francis Bacon è sempre stato il mio artista preferito, ho sempre riscontrato una drammaticità molto cinematografica nelle sue opere, per come distorce le facce, la memoria nei suoi quadri (...) Per creare il look del Joker abbiamo studiato le sue creazioni, la maniera in cui "sforma" i volti. Heath, insieme ai make up artist, ha trasformato la sua faccia in una tela, cui è stato poi conferito questo aspetto in cui il trucco è tutto scolato, quasi madido, in cui si raggiunge questo livello quasi da "uomo torturato"»[3]. Nella fotografia dei suoi film, spesso definita a buona ragione “kubrickiana”, ritroviamo infatti certe irregolarità, certe distorsioni che l’illuminista Kubrick si permetteva solo sotto stretto controllo e che rendono attuale, e perciò punto di riferimento per «l’odierna arte guida»[4], la pittura di Bacon. Paradossalmente, tutto ciò che questi registi raggiungono “attraverso” Bacon e la sua pittura non viene eguagliato dal film che di Bacon cerca di raccontare l’anima e l’arte. Love is the Devil (1998) di John Maybury è un tentativo molto affascinante ma altrettanto irrisolto, in quanto il metodo utilizzato sembra essere la mera, sistematica citazione dei dipinti e della loro “atmosfera” nella quotidianità: l’occhio dell’appassionato non può che restare incollato allo schermo fino al termine del film, con la sensazione finale di aver assistito a una parata da pinacoteca, priva forse di un più profondo tentativo di penetrazione. C’è tutto di Bacon, tranne Bacon: l’occhio della cinepresa costantemente deformato e deformante, come le bottiglie d’alcol attraverso cui ci vengono presentati alcuni personaggi; la materia pittorica del colore del sangue e della vita, amalgamata da Bacon con perturbante disinvoltura; la natura manipolativa e straordinariamente non conforme (nel bene e nel male) di questo artista convinto che la natura dell’uomo fosse essenzialmente carnale, casuale, effimera. Ebbe a dichiarare lo stesso Bacon: «Le immagini di mattatoio e di carne macellata mi hanno sempre molto colpito, mi sembrano direttamente legate alla crocifissione. Che altro siamo se non potenziali carcasse? Quando entro in una macelleria mi meraviglio sempre di non esserci appeso io al posto dell’animale»[5].

 

[1] http://archiviostorico.corriere.it/2007/maggio/01/Che_fascino_disperazio...
[2] http://batman.wikia.com/wiki/Flugelheim_Museum
[3] http://www.badtaste.it/articoli/christopher-nolan-e-le-influenze-di-fran...
[4] F. Zeri, La percezione visiva dell’Italia e degli Italiani nella storia della pittura, in Storia d’Italia, vol. 6, Torino, Einaudi, 1976, p. 65
[5] M. Tavola, Storia dell’arte – Volume 3, Alpha Test, 2007, p. 15

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