Il regista messicano Alfonso Cuarón a Lucca per ritirare un premio alla carriera e regalarsi al pubblico per una lezione di cinema: dall'arte pura ai diktat di Hollywood, passando per "Gravity" e Lubezki
Alfonso Cuarón è nato il 28 novembre 1961 sotto il segno mobile e focoso del sagittario: mobile lo è senz’altro, almeno dal punto di vista cinematografico (è l’autore sia di Harry Potter e il prigioniero di Azkaban che di I figli degli uomini, per dire), focoso pure. Simpatico e schietto, a Lucca ha parlato per più di un’ora con il pubblico nella splendida cornice del Teatro del Giglio, guidato dai critici Andrea Fornasiero (Rai4) e Claudio Bartolini (FilmTV), di cosa significhi per lui “cinema”, di come l’impeto poetico non possa sottrarsi a esigenze prosaiche come pagare l’affitto, del metodo di direzione degli attori di Woody Allen e del suo rapporto con l’ormai celeberrimo direttore della fotografia Emmanuel Lubezki. E agli aspiranti registi ha consigliato: "Siate curiosi e appassionati".
Con il suo straordinario film-esperienza Gravity, realizzato a 7 anni di distanza dalla distopia fantascientifica I figli degli uomini (in cui immaginava un mondo sterile, senza bambini), Alfonso Cuarón ha conquistato 7 statuette agli Academy Awards 2014: miglior regia, miglior fotografia, miglior montaggio, migliore colonna sonora, migliore sonoro, miglior montaggio sonoro, migliori effetti speciali. Però se, parlando di tutt’altro, gli capita di accennare al premio Oscar, dice “Vincere l’Oscar non significa nulla”.
Il direttore della fotografia Emmanuel Lubezki, due volte premio Oscar (con Gravity, appunto, e con Birdman, all’edizione 2015 appena trascorsa), per lui è semplicemente Chivo (“capra”), l’amico conosciuto ai tempi del liceo che lo seguì a ruota quando Cuarón scelse di studiare cinema, lavorò come suo assistente quando il regista era ancora solo direttore della fotografia e, come l’amico, è riuscito a conquistare il mondo della settima arte (ha lavorato anche con Terrence Malick per The New World e The Tree of Life e con Tim Burton per Il mistero di Sleepy Hollow).
[Leggi anche: Da "Sleepy Hollow" a "Birdman": il talento di Emmanuel Lubezki in un video celebrativo]
Se gli si chiede di descrivere la sua idea di cinema si anima e si infervora: rifiuta le tradizionali distinzioni tra cinema mainstream e d’autore, che considera etichette utili a chi fa critica, ma estranee al pensiero di un regista all’opera; parla della necessità che il concetto prevalga sulla tecnica (eppure è il regista di Gravity, film che esiste grazie a un impiego massiccio delle tecniche e tecnologie cinematografiche più avanzate); ripete spesso che il cinema è un’arte pura, più assimilabile alla musica che alla letteratura o al teatro (seppure, più tardi, lo definisca “il fratello tonto e brutto nella nobile famiglia dell’arte” e “l’amante bionda e tettona per cui, vecchio bacucco, abbandoni la donna stupenda che hai sposato da giovane” – dove la moglie stupenda è la letteratura) e che può fare a meno di qualsiasi elemento (musica, montaggio, sonoro), tranne che della macchina da presa. Dunque che a quest’ultima bisogna sempre tornare e che a partire da questa si svolge il lavoro dell’artista, il cui obiettivo dovrebbe essere un cinema immateriale, interpretabile. D’altra parte non si nasconde dietro la poesia e afferma candidamente che molti film li ha fatti “per pagare l’affitto”, nonostante abbia appena citato Chabrol il quale, parlando delle diverse forme espressive cinematografiche, ebbe a dire “Le onde [con riferimento alla Nouvelle Vague, ndr] sono tante, l’oceano uno solo”. Alla domanda sul suo regista italiano preferito risponde "Michelangelo Frammartino".
Apparentemente contraddittorio ma lucido, inaspettatamente cinefilo, Cuarón ammette di essere pigro, di annoiarsi spesso dietro la macchina da presa per via della rigidità delle regole hollywoodiane, di perdere interesse per una certa forma o idea una volta che l’ha realizzata: da qui la reticenza sui progetti futuri e la promessa che saranno completamente diversi da quanto già fatto.
In effetti, se si conosce la sua filmografia, si comprende che, per i vari motivi sopra elencati, il regista messicano fa della discontinuità una cifra stilistica. Questa è dovuta in parte al fatto di essersi più volte appoggiato a testi non suoi, come nel caso di La piccola principessa, l’episodio di Harry Potter o I figli degli uomini, su cui racconta un retroscena interessante: “Io il libro [l’omonimo romanzo di P. D. James, ndr] non l’ho nemmeno letto. Lo studio mi mandò una nota con la premessa della storia. A me piacque, mi piacque il nome del protagonista e così buttai giù la sceneggiatura”. Così nasce il film interpretato da Clive Owen, “il più goffo degli action hero”, che Cuarón definisce un remake di Y tu mamá también (girato nel 2001, cioè cinque anni prima): “Volevo realizzare il film che avrei fatto prima di studiare cinema, prima di conoscere le regole. Ho provato a lavorare con due obiettivi e poi non ho più smesso, non solo per una questione tecnica: volevo ampliare lo sguardo dal close-up, comprendere anche il paesaggio che circonda il personaggio e lo influenza. Così ho scelto il pianosequenza, che permette una cosa straordinaria: momenti di verità”. Ma la discontinuità è anche conseguenza di un’insaziabile curiosità, che Cuarón segue con fiducia per vedere dove lo porta.
Consiglia di fare lo stesso a chi, dal pubblico, chiede suggerimenti per diventare registi. Così fa suo figlio Jonás, classe 1981, autore della sceneggiatura di Gravity e regista del cortometraggio Aningaaq che ne rappresenta lo spinoff (Aningaaq è il fantasmatico interlocutore di Sandra Bullock, che nel film non si vede). “L’idea” racconta Alfonso “è nata dopo un viaggio in Groenlandia che abbiamo fatto insieme, io e Jonás: è stato un percorso psichedelico, dopo tre ore immersi nel bianco della neve, seduti nella slitta, la realtà assume contorni diversi… E poi da tutto questo bianco è emerso un punto nero: pensavamo fosse una foca, invece era Aningaaq, quest'uomo, ubriachissimo, che abita con la moglie in mezzo al nulla più totale. Jonás ha pensato subito di dedicargli un corto e così è stato”.
A volte la passione, la ricerca della purezza e del cinema tout court (“Il cinema è la prima cosa, sempre. Anche se non è tutto: resta la realtà”), devono assecondare le richieste degli studio: Cuarón lo fa con naturalezza, pur di realizzare ciò che ha in mente. Se la distopia di I figli degli uomini era il pretesto per un saggio socio-politico, che resta sullo sfondo, ma è più importante del viaggio del protagonista, così il regista spiega la genesi di Gravity: “L’ispirazione veniva da Un condannato a morte è fuggito di Robert Bresson: mi interessava indagare la realtà di un essere umano costretto all’interno di un luogo da cui vuole fuggire. Questa è la riflessione alla base del film. L’ho ambientato nello spazio solo per poterlo vendere alla Warner”.
Decisamente il re dell’understatement.
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