Dalla passione per la letteratura a quella per il cinema, da rifugio per dilettanti a proiezione di un disagio interiore. Aneddoti, segreti, curiosità sul regista Paolo Sorrentino e sul percorso che lo ha portato dal Premio Solinas all'Oscar
Mi sono appassionato al cinema solo a 19 anni. Prima ero molto più appassionato di letteratura e covavo il desiderio di diventare uno scrittore, era quello il mio sogno. L'interesse per il cinema, e quindi di fare il regista, è un interesse tardivo, ed è anche molto strumentale, molto calcolato rispetto al mio carattere e alle capacità che avevo o che presumevo di avere. La passione per il cinema nasce perché a quei tempi mi era parso che il cinema fosse il rifugio del dilettante, cioè che richiedesse una conoscenza imprecisa e approssimativa di varie arti. E quindi avere un po' di conoscenza della musica, della fotografia, della pittura, della scrittura, del montaggio – che invece è una cosa che attiene prettamente al cinema. E pensavo che bastava saperne un po' di tutto senza saperne veramente bene niente. Pensavo che nel cinema l'essere molto discontinuo ed avere una capacità di concentrazione molto limitata, come la mia, potesse servire. Anche l'idea di fare il musicista mi attraversava, ma ho capito che richiedeva esercizio, pazienza, come anche la letteratura, che mi sembrava una cosa molto complicata. A me fondamentalmente non andava di studiare.
Perché hai scelto di fare il regista?
Io vengo da una famiglia molto semplice, padre bancario e madre casalinga. A casa mia non esistevano libri o meglio esistevano i best seller, vincitori del Premio Strega, libri americani, spy story. Non si vedevano nemmeno molti film. Mia mamma amava le commedie brillanti americane e quello è stato il mio primo approccio al mondo del cinema. Stranamente inseguivo in maniera frammentaria questi sogni di natura artistica, la musica prima, la letteratura e poi infine il cinema. Ripensandoci a ritroso la spiegazione è molto semplice: si sceglie questo genere di lavori perché si è a disagio, non si è a proprio agio nella vita. Non ho mai conosciuto uno che ha avuto successo in questo campo e che abbia una situazione di pacificazione con la vita. Penso che tutto nasca da un rapporto con le cose, con le persone, di estremo disagio.
Nel momento in cui hai percepito questo desiderio che cosa hai fatto? Come hai dato corpo a questo tuo desiderio?
Semplicemente ho cominciato a vedere film, in maniera del tutto anarchica. Il primo film che veramente mi ha fatto capire che poteva essere bello fare questo mestiere è stato Nuovo Cinema Paradiso di Tornatore. Per colmare la passione per la scrittura ho comprato un manuale di sceneggiatura, credo il peggiore che ci fosse, e ho provato a scrivere qualche sceneggiatura. Orrende a mio parere. E ho anche seguito un corso di sceneggiatura a Napoli organizzato da alcuni ragazzi volenterosi.
E la tua prima esperienza nel cinema?
Chi teneva questo corso di sceneggiatura a Napoli veniva a lavorare a Roma. Così, come premio, io, Ivan Cotroneo e un altro ragazzo fummo chiamati ad andare a Roma come volontari in un film che durava due settimane. L'esperienza di assistente volontario alla regia fu devastante. Mi sembrò, per i miei 19 anni, un ambiente molto cinico, spietato e antipatico. Decisi che l'ambiente del cinema non faceva per me e tornai a Napoli dove continuai, fino a 24 anni, l'università in Economia e Commercio. Poi incontrai un ragazzo che per lavoro andava a fare serate nelle discoteche con una betacam, e a me non sembrava vero, perché a quei tempi c'erano solo le telecamere VHS. Il fatto che fossi entrato in amicizia con questo ragazzo che lavorava per una televisione mi fece risalire questa passione. Scrissi una sceneggiatura e un venerdì girammo questo mediometraggio a casa mia, con la vicina di casa e con i miei compagni dell'università. In realtà l'unico a cui interessava la cosa ero io. Incredibilmente venne una cosa strampalata ma decente.
Quando e come conoscesti il tuo produttore?
Era il 1994, lo stesso periodo in cui girai il primo mediometraggio, e a Napoli si girava il primo film di Stefano Incerti Il Verificatore. Tramite conoscenze presi un appuntamento con uno che lavorava sul set per propormi come volontario di regia ma essendo tutto pieno mi misero in produzione. Lì conobbi il mio attuale produttore, Nicola Giuliano, al quale mostrai il mio mediometraggio. A lui piacque e da lì iniziammo a collaborare insieme.
Parlaci del tuo lavoro da sceneggiatore
Feci una lunga gavetta, sia come assistente alla regia, sia come sceneggiatore. Vinsi il Premio Solinas con una mia sceneggiatura che provai a far diventare film ma non me lo fecero fare e allora scrissi un'altra sceneggiatura, sempre per il Premio Solinas, e vinsi un premio nuovamente. Da autodidatta ero diventato abbastanza capace a scrivere. Collaborai anche per la scrittura di alcune puntate della serie televisiva La Squadra, un poliziesco ambientato a Napoli. Antonio Capuano, scrittore eccelso, volle darmi una mano e mi fece collaborare alla scrittura della sceneggiatura di un suo film Polvere di Napoli. Nel 2000, con la seconda sceneggiatura L'uomo in più, ho debuttato vincendo il Premio Solinas. Era un periodo felice per il cinema italiano e debuttare era ancora possibile.
Com'era lavorare nella tua città, Napoli?
A Napoli era tutto più facile, eravamo una trentina di persone che lavoravamo nel cinema, ci conoscevamo tutti, ognuno leggeva il lavoro dell'altro, dando consigli, opinioni e fu un periodo felice.
Chi reputi i tuoi maestri e quali sono state le tue esperienze più formative?
Prima ancora di scrivere per la televisione, tra i giurati del Premio Solinas, incontrai Umberto Contarello. Lui mi insegnò davvero il mestiere, quei trucchi che purtroppo si imparano sul campo, con l'esperienza. Quando studiavo sceneggiatura, e studio ancora, ho capito che di fronte ad un problema x ci sono degli escamotage che si possono adoperare, ma sono propri di quella storia, non sono universali. L'esperienza televisiva fu molto formativa, avevo 24/25 anni e non ero inesperto come quando feci la prima esperienza a 19 anni. Mi scontrai con i dirigenti RAI, con certe ottusità, con una presunzione dilagante, con gente pronta a dire “io conosco il pubblico”, che poi è una grossa menzogna perché serve solo a farti fare quello che vogliono. Ciò che è stato decisivo nella mia formazione lo capii grazie a Capuano e Contarello. Loro erano due persone che avevano un loro mondo. Capii che bisogna costruirsi un proprio mondo per fare questo mestiere.
Cosa significa “avere un proprio mondo”?
Forse significa spremere, valorizzare e trasfigurare sempre la propria infanzia e la propria adolescenza, almeno per me funziona così. Valorizzare quell'età in cui le sensazioni sono fortemente amplificate. Riguardando i miei film noto che un filo rosso è proprio questo: ogni cosa è collegata al mio passato. Per essere brutali, quelli che non ce l'hanno fatta erano quelli che non avevano un loro mondo preciso ed identificato oppure che avevano un loro mondo molto banale e prevedibile. Quelli, invece, che hanno messo in moto un meccanismo di pensieri ed immaginazione, che in qualche modo è inedito, sono riusciti a diventare dei lavoratori dello spettacolo.
E tu come sei riuscito a crearti il tuo mondo inedito ?
Unitamente al mondo della mia infanzia e adolescenza, originali di per sé, l'incontro con Capuano e Contarello mi ha permesso di rubare il loro immaginario e di declinarlo sulla base di ciò che ero io a quel tempo e che poi sono diventato. Inoltre, avevo posto delle buone basi, in maniera del tutto fortunosa. Ad esempio, io sono una specie di figlio unico con genitori molto adulti, per cui mi ritrovavo spesso a trascorrere serate a casa dei loro amici, annoiandomi mortalmente, attorniato da gente ultra cinquantenne che giocava a poker o ballava in modo mesto, e in un certo senso ho declinato nei miei film questo mio vissuto. Ad esempio in L'uomo in più, che è la storia di un cantante non più giovanissimo che spesso va in discoteca, ho trasfigurato mio padre o gli amici di mio padre, cosa che ho fatto anche nell'ultimo film La grande bellezza. Essere figlio di genitori molto grandi mi ha aiutato ad osservare. Mi ero creato un mio bacino di immagini, un mio bacino affettivo nei confronti di questi adulti che oltretutto avevano delle regole precisissime: le donne giocavano a conchè, gli uomini giocavano a poker. E tutto questo mi è servito.
È importante che il mondo interiore di cui parlavi sia compreso e sia importante anche per gli altri?
È proprio questa la sfida. Far comprendere il proprio immaginario delle cose, delle relazioni, delle persone che inizialmente è solo tuo, anche agli altri. E questa è una sfida dettata in parte dalla tecnica, dal talento, dalla fortuna e dalla bravura. Il divario tra il proprio mondo incompreso e il momento in cui riesci a trasmetterlo agli altri è un processo lungo. I primi film di ogni regista sono privi di pubblico. Man mano limano e definiscono il proprio immaginario sempre in modo più affascinante e la gente inizia a comprenderli e ad avvicinarsi ad essi.
Qual è stato il tuo più grande fallimento o delusione, in termini cinematografici, che ti ha dato il più grande senso di rivalsa?
Sicuramente ci sono molti episodi, ma una cosa che ricordo e che mi ha fortemente formato è stato il clima di totale sfiducia, di non considerazione, di chi mi incontrava. Quest'ultimi erano nettamente convinti della mia stupidità e della mia sproporzione tra chi ero e chi volevo essere, un regista cinematografico. E tutto sommato avevano ragione, anch'io non riuscivo ad immaginarmi come uno che arriva in un set e predispone tutto. Questo clima di sfiducia però ha alimentato molto un senso di rivalsa, che mi ha aiutato a sviluppare una determinazione che sconfina nell'ottusità. Adesso che però mi sento riconoscere dei meriti ho paura che questo senso di rivalsa si esaurisca e questo mi preoccupa.
Come pensi di comunicare adesso? Da dove riparti per evitare il rischio che temi?
Riprendo normalmente, il senso di rivalsa è sempre vivo perché adesso parallelamente agli estimatori si moltiplicano i detrattori. Loro mi interessano nella misura in cui si rivelano utili allo sviluppo di nuove idee. Ci sono ancora cose misteriose che mi piacerebbe illudermi di poter decifrare e quelli diventeranno film. In questo senso l'Italia è un paese meraviglioso, gravida di un campionario umano vastissimo, eterogeneo, intelligentissimo, cialtrone, ironico o estremamente serioso. C'è una materia così vasta che penso e spero di non aver alcun problema. Adesso è il momento in cui la gente parla di quello che hai fatto, dopo ci si dedica al lavoro per il lavoro, ed è la parte più bella.
Com'è nato il sodalizio con Toni Servillo?
Ricordo che demmo a Servillo la sceneggiatura di L'uomo in più ma per un bel po' di tempo non la lesse. Ad un certo punto, esausti, escogitammo uno stratagemma. Un altro produttore, Angelo Curti, che voleva fare questo progetto, lo contattò dicendogli che non era più necessario leggere quella sceneggiatura perché stavamo pensando di darla ad un altro attore. Questo servì a fargliela leggere e quando mi chiamò mi disse: “È una bella sceneggiatura, peccato farla fare a te che non hai ancora fatto niente come regista. Dalla ad un regista capace”. Non ebbi il coraggio e la forza di dirgli che volevo farla a tutti i costi io. Ma lo venne a sapere tramite terzi.
Cos'è per te un artista?
Per me un artista è uno in grado di regalare un'emozione all'altro. Se invece di un'emozione regala semplicemente una cosa artefatta, per me non è artista.
Come hai creato il tuo stile di ripresa e tecnica di inquadratura e di movimento?
Io ho iniziato a muovere la cinepresa perché mi piaceva Scorsese e Scorsese muoveva la cinepresa. A me piacciono personaggi e situazioni statiche. Quindi potete immaginare che per me il film su Andreotti è stata la messinscena più facile da fare, dal momento che lui è stato per la maggior parte del tempo seduto alla scrivania. Se ci sono personaggi statici la cinepresa mossa funziona e rende meno noioso tutto. Di fatto, almeno per me, ogni film è un tentativo di svelare un mistero. Quindi forse il mio muovere costantemente la cinepresa è legato al fatto che questo ti illude di riuscire a svelare qualche mistero, come girare in una casa degli spiriti.
Se tu dovessi dare un consiglio a chi si vuole avvicinare a questo mondo quale daresti?
Non nego che la dose di fortuna agli inizi è considerevole. Ma si deve soprattutto mettere a fuoco il proprio mondo, capire se uno ha un universo da raccontare che abbia una sua originalità. Capire se si ha la predisposizione a uscire dal banale e dal convenzionale. Forse adesso prima di chiedermi cosa vale la pena di raccontare mi chiederei cosa non vale la pena di raccontare. È un consiglio anche pericoloso, perché spesso le cose che vale la pena raccontare sono le più semplici, ma che ancora possono stupire come è successo a me con i film Amour e La vita di Adele.
Quando fai un film, adesso, lo fai più per te o pensi alle sensazioni e a cosa trasmetterai al pubblico. Quanta responsabilità senti?
Se uno cominciasse col senso di responsabilità significherebbe prendersi troppo sul serio e non mi divertirebbe più fare questo lavoro. Sarebbe anche paralizzante. Per me l'unico metro è seguire il sistema giusto: io sono l'unico spettatore del film. E poi speri di essere rappresentativo di un'ampia parte di pubblico.
Qual è la tua etica del cinema?
Penso che, a seconda dei generi e delle inclinazioni delle persone, non bisogna mai distanziarsi dall'idea che tu hai delle cose, delle persone. Questo non significa che raggiungi delle verità, ma devi essere legato ad una verità. Una qualunque scena mi deve sembrare vera. La critica che tollero meno, infatti, è quando mi si dice che non sono realista. Per me le scene che creo sono tutte verosimili. Non mi piace ingannare lo spettatore con un falso.
Facciamo un piccolo passo indietro. Tu sei anche uno scrittore. Questo tuo inizio di percorso l'hai lasciato cadere e poi è tornato oppure questo pallino non ti ha mai lasciato?
Io scrivo le sceneggiature come dei libri. Mi dilungo tranquillamente e contro ogni regola. Una cosa che trovo molto faticosa è scrivere un libro, mi viene più difficile. Per sopravvivere alla routine del non far niente ho scritto un libro e non so se riuscirei a farne un altro. Quello che penso di saper fare un po' e che mi piace fare è cinema.
Tu in qualche modo ti ci relazioni alla scrittura, soprattutto nella costruzione dei personaggi?
Ho una formazione più da lettore che da spettatore, anzi ho notevoli lacune di cinema. Per me tutto discende dalla letteratura, dalla scrittura. Quindi, tutto sommato, non so quanto mi interesserebbe fare un film senza poter scrivere io la sceneggiatura. Molte idee che mi vengono passano per la scrittura, per gli aggettivi. Per me sarebbe impensabile rinunciarvi.
Chi sono gli autori o i libri da cui prendi spunto, ti ispiri?
Il libro che più mi ha formato è Viaggio al termine della notte di Louis-Ferdinand Céline. Mi ha fatto entrare nel mondo degli adulti in maniera precisa, facendomi capire il mondo degli uomini. Mi è sempre sembrato il romanzo più completo, che contenesse tutti i personaggi possibili, tutti i mondi possibili.
Nella pratica come inizi a decifrare il mistero del film?
Di solito mi metto a studiare, mi informo, vado in giro a fare interviste alle persone che potrebbero interessarmi. Nel primo film, L'uomo in più, ho studiato tutto il mondo dei cantanti, dei calciatori, li ho conosciuti e mi sono documentato. Ne Le conseguenze dell'amore ho studiato tutto il mondo della mafia. Sapevo tutte le dinamiche di funzionamento delle mafie. È anche un pretesto per studiare e per impadronirsi di un pezzo di quella materia.
Parlando di This must be the place cosa ti ha spinto a realizzare il tuo primo film straniero e come mai volevi assolutamente Sean Penn come protagonista tanto da aspettarlo per un anno?
Il film è in lingua inglese per la mia passione legata ai criminali nazisti in giro per il mondo e molti criminali nazisti sono nascosti negli Stati Uniti d'America. Poi, per definizione, una rock-star è una persona che canta in inglese, nella iconografia classica. Incontrai Sean Penn a Cannes, io ero lì per Il divo e mi disse che se in futuro avessi avuto un film da proporgli lui sarebbe stato felice di farlo con me. Non capita tutti i giorni un'occasione del genere così il giorno dopo pensai ad un film per lui. La cosa che mi ha fatto propendere ad aspettarlo è stato il suo sguardo. Perché Sean Penn ha lo sguardo di un uomo addolorato non di un uomo che ha il mondo sotto i suoi piedi. E ne è valsa la pena attenderlo.
Mai pensato di scrivere una sceneggiatura la cui protagonista è donna?
Il mio primo tentativo l'ho fatto e ci riproverò. Anche perché cosa c'è di più misterioso per un uomo se non una donna? Io non faccio altro che sbirciare l'intimità della donna quando sono sole a parlare tra loro, ma non è facile entrare in quel mondo.
Hai mai subito un conflitto tra scelta artistica e la parte economica di un film?
Questo tipo di ricatto a me non è mai capitato, per fortuna anche grazie ad un produttore che sa filtrare bene e che mi difende. Penso che sia finita quell'era del cinema in cui c'era spazio per film destinati al completo insuccesso. Quindi io faccio attenzione nella scelta del film. Il mio unico compromesso è: questo film può suscitare interesse?
Parliamo del tuo ultimo film La Grande Bellezza. Cosa hai studiato per arrivare a comporre questo film?
Il film non nasce dallo studio di una materia, a me vengono in mente dei personaggi più che delle trame. Una volta che individuo un universo, intraprendo una fase di documentazione. È un lavoro che faccio in maniera molto ossessiva, ma non appena vedo che l'eccesso di conoscenza del tema del film va a impoverire la mia immaginazione mi fermo. Infatti, ho la conoscenza delle cose imprecisa e incompleta. Ad esempio per La grande bellezza cominciai ad andare alle feste, ma dopo essere stato a tre feste non andai più perché stava diventando una routine. Preferisco idealizzare certi mondi e riproporli così. E sono anche convinto che questo mi avvicini alla verità molto di più. Per La grande bellezza ho fatto proprio questo. Questo film volevo farlo almeno vent'anni fa, quando da ragazzo venivo a Roma per lavorare e bazzicavo bar legati alla televisione e vedevo tutto il mondo che non esitava a frequentare quelle forme di squallore che io trovavo meravigliose e che mi hanno sempre suggestionato molto. Dirigenti che cercavano di abbordare le ragazze giovani, cose molto miserabili che su di me avevano una presa forte. Facevo un mio archivio di cose romane e di contesti per me misteriosi: la televisione, il Vaticano, la politica, queste feste mondane, tutte cose che non conoscevo venendo da Napoli, e che mi affascinavano e che ho voluto conoscere attraverso il film.
Tutta la tua cinematografia ruota attorno alla tua intuizione che a sua volta ruota attorno ad un personaggio straordinario. Il fatto che questi personaggi siano così straordinari e allo stesso tempo che tu abbia bisogno di frugare tra le persone è di estremo interesse. Il personaggio de La grande bellezza in qualche modo sai dirci da dove viene, qual è stato il primo incontro che hai fatto con lui? È reale, letterario, sognato?
Per me un personaggio straordinario significa asociale. Io so fare film su personaggi asociali che si trovano a disagio col mondo che li circonda. E questi personaggi vengono da me, perché io, ad esempio, sono a disagio con la mia famiglia. Personaggi che, nonostante sembrino inseriti perfettamente nella società, vedi La grande bellezza, provano un profondo disagio. Anche lo stesso Andreotti che non dominava la politica ma ne era dominato o ne subiva il potere. I film scaturiscono dalla mia difficoltà nel rapportarmi con le persone. Infatti io o proietto un'aura di perfezione che vorrei avere oppure proietto un'aura di imperfezione che conosco perfettamente. Nella concezione del personaggio, di fatto, proietto me trasfigurato, camuffato. Faccio degli antieroi che a loro modo sono asociali.
Ne La grande bellezza emergono anche i personaggi grotteschi. Come sono nati i personaggi del monsignore, della suora e della nana?
Molti mi hanno attaccato sulla scelta di personaggi inverosimili, ma esiste davvero una direttrice di un giornale nana che dirigeva Donna Moderna. Il Cardinale nasce dal fatto che io e i miei familiari siamo stati contagiati da Masterchef e quindi mi son detto che forse anche in Vaticano qualcun altro fosse stato contagiato. Lo so, è una risposta deludente e stupida ma è la verità. Per quanto riguarda la suora, trovo che ci sia qualcosa di commovente in questi personaggi rarissimi che consacrano la loro vita al bene. Quindi ho pensato di inserire un personaggio lontano da quel mondo. A volte è un escamotage narrativo. Non c'è nulla di più conflittuale di una donna dedita alla bontà e quell'universo un po' cialtrone e miserabile di quei personaggi.
Come mai la scelta di prendere un attore prettamente comico come Carlo Verdone per calarlo in una parte drammatica?
Spesso è un pallino di molti registi, quello di prendere attori comici e provarli su registi drammatici. Poi Verdone è romano, io lo conoscevo già e in realtà lui è un uomo molto malinconico che ride molto raramente. Mi sembrava proprio giusto per il personaggio.
Quando Jep smaschera la sua amica Stefania, con quale tono lo fa?
In realtà quella scena si basa sull'idea che, al contrario di quello che solitamente si crede, a me col passare del tempo l'ipocrisia mi sembra sempre più un valore anziché un disvalore. Jep lo fa obbedendo ad un istinto che abbiamo tutti. Gente che ci propina una serie di cose che non sono la verità e quindi ad un certo punto sbottiamo. Lui ha una funzione catartica, perché molti di noi hanno la loro “Stefania” a cui vorrebbero dire le stesse cose. Però io ho voluto sottolineare il pericolo di smascherare l'ipocrisia. Nel film, infatti, questo rovina la serata e l'atteggiamento che si portano negli anni i protagonisti e che comunque li aiuta a campare e a divertirsi. Nella vita reale smascherare non sempre porta un miglioramento anzi può portare un peggioramento. Quindi dal mio punto di vista l'ipocrisia in certe situazioni è un valore.
La scena dei fenicotteri come è uscita fuori?
Quella dei fenicotteri è un'immagine che mi è venuta in mente. Far vedere dei fenicotteri su Roma mi sembrava una scena forte. Uno dei talenti che dovrebbe avere chi lavora con le immagini è quello di immaginare delle scene e a me è accaduto questo.
Perché hai scelto di fare l'inquadratura dello spremiagrumi in cui si legge chiaramente la marca? Si tratta di product placement?
Lo spremiagrumi nasce dal fatto che mi piaceva perché aveva la forma di un uomo col cappello, ma forse quello è un product placement. Al contrario dell'inquadratura sul logo Martini. Lì non si è trattato di product placement; a me è sempre piaciuta proprio quella scritta.
Le colonne sonore veicolano molto il film. Che tipo di lavoro fai sulla musica?
Per scrivere la sceneggiatura da solo ho bisogno di sentire la musica che potrebbe essere la musica del film. Mi faccio un'idea del film e poi seleziono delle musiche che quasi sempre appartengono ad un repertorio, non sono composte appositamente. La musica mi aiuta a galvanizzarmi.
C'è la scena in cui Jep parla dall'alto in basso ad una bambina che gli chiede “Chi sei”? E Jep non fa in tempo a rispondere che subito lei continua:“Tu non sei nessuno”. Ed è bello vedere Jep che non le risponde, dialoga tra se stesso, si rimette gli occhiali e procede con la sua vita. Quella domanda è fatta a te oppure è fatta al pubblico? Da cosa ti è nata?
I bambini alle volte hanno la capacità straordinaria di andare al centro della questione, ti offendono e ti dicono l'offesa giusta in quel momento. I bambini hanno la capacità di andare all'essenza delle cose perché non hanno nessun freno. E lei va al centro della questione. Io ogni volta che mi trovo nelle situazioni di feste mi annoio e comincio a pormi domande di questo tipo. Così l'ho trasferito a lui e ho fatto fare la domanda alla bambina. La reazione di Servillo è una invenzione sua, perché in realtà era una scena senza dialoghi.
Le molte scene tagliate sono state tagliate per via della durata del film o perché erano inutili?
In realtà il film è strutturato in modo che nessuna scena è necessaria e tutte lo sono. Però ad un certo punto ti poni delle domande specifiche durante il montaggio: il tasso di noia, il rallentamento. Sono state tagliate perché rallentavano ancora di più il ritmo del film.
Si è detto che La grande bellezza è un film molto felliniano. Ci sono cose che hai fatto per citarlo o ti sono venute naturalmente?
Probabilmente avendo visto molte volte i film di Fellini sono rimaste delle impronte ma durante la stesura del film ho preferito non rivederli. L'unica citazione volontaria che ho voluto fare è stata quella di girare una scena in via Veneto proprio per mostrare questa via com'è oggi.
Perché hai scelto questo titolo?
Con i titoli non sono bravo e li trovo sempre all'ultimo momento. Oltretutto La grande bellezza è il titolo di una sceneggiatura di un mio amico, Roberto De Francesco, che è stato molto gentile da darmelo. Mi sembrava un titolo bello e anche ambizioso.
Come mai i nomi dei tuoi personaggi sono così strani e non usuali?
In realtà li rubo sempre da persone che ho conosciuto. Gran parte del lavoro è bello farlo perché con lo sceneggiatore ti diverti anche ad inventare. Diffidate da chi sostiene che ogni cosa è stata dettata da una profondissima riflessione interiore. Per me i nomi sono una forma di divertimento.
Cos'è per te La grande bellezza?
Per me fare film è mettere ordine nel disordine che hai creato da ragazzo. E la grande bellezza forse è questo per me. Tutto quel caos nel film ti permette di rendere importante ciò che non ha importanza. Il film è un campionario di inutilità, c'è lo spreco della vita, ma fare un film o un libro ti permette di dargli un ordine e in questo risiede la bellezza.
Dato che parti da immagini molto intime, quanto cerchi di imporre la tua visione al direttore della fotografia o al montatore, e quanto ti fidi e ti lasci guidare da loro?
Se non impongo delle cose ho l'impressione di perdermi. Anche perché per tenere le cose insieme per un anno o più è necessario imporre delle cose. Credo che più il regista ha il controllo su molti aspetti del film più il film verrà bene. Quindi cerco di mettere bocca su tutto: fotografia, scenografia, montaggio. Così mi sembra di controllare meglio il film. Ma su molte cose delego, come per i costumi.
Che caratteristiche deve avere un buon direttore della fotografia?
Il grande direttore della fotografia è uno che dà il meglio di sé, dà grandi soluzioni legate alla visione che ha il regista. Se un direttore della fotografia avesse un suo stile e lo imponesse, forse, sarebbe un problema.
Quest'anno sono stati premiati molti documentari. Qual è e com'è il tuo rapporto col cinema del reale?
Io faccio fatica a trovare la differenza. I film che piacciono a me sono quelli che hanno un forte legame col reale. Per me Il capitale umano non è dissimile da un documentario di Alessandro Rossetto. Forse anche perché non ho mai realizzato un documentario e non ne conosco metodi e tecniche. Però sono molto felice che il documentario sia premiato, come quello di Gianfranco Rosi, Sacro GRA, che ha vinto il Leone d'Oro.
Da ragazzo quale regista ti ispirava di più? E adesso?
I registi che mi piacevano da ragazzo sono gli stessi che mi piacciono adesso. Prima di tutto Fellini e poi Scorsese. Molto spesso capita che, rivedendo i miei film, mi renda conto di aver copiato di sana pianta qualcosa o delle dinamiche. Questo perché ci sono dei film che rivedo costantemente. Oltre a Fellini e Scorsese, vedo spesso L'uomo che amava le donne, Tempesta di ghiaccio, Il verdetto, Carlito's way, Donnie Brasco, tutti film di mafia insomma. L'ultimo film di Scorsese è meraviglioso. Poi ci sono tanti film che mi hanno folgorato. Ma alla fine uno si illude di aver sviluppato un proprio stile, una propria forma. Ecco, la cosa che più mi piacerebbe si dicesse di me è che ho un mio stile, diverso da quello di qualcun altro.
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