Ritratto di Francesco Pignato
Autore Francesco Pignato :: 9 Aprile 2014

Quali sono le logiche di produttori e distributori in Italia? Solo una piccola percentuale dei film prodotti si possono vedere in sala. Per ragioni commerciali il cinema di qualità con basso incasso non arriverà più sul grande schermo?

Le logiche dei produttori e dei distributori in molte parti del mondo e purtroppo anche nel nostro paese, arretrato tecnologicamente per consentire una distribuzione efficace via streaming, possiedono dinamiche autodistruttive inspiegabili. Spesso chi ama il cinema, e lo ama in maniera appassionata, non riesce a spiegarsi come mai moltissime opere, alcune di rara bellezza, restino per pochi giorni in piccole sale d’essai, sempre che ce ne siano rimaste, per poi finire nel dimenticatoio e non riescano ad entrare nei nuovi circuiti di distribuzione on line molto precari in Italia.

Esiste ancora, per fortuna, un pubblico più che di nicchia ben disposto a seguire la narrazione di storie lontane dai blockbuster che imperano nei Multiplex. Questo stesso pubblico diventa protagonista di un'affannosa ricerca. Le motivazioni non sono solo la qualità del film, ma quella curiosità che porta lo spettatore a cercare il nuovo, qualcosa di mai visto prima, anche l’interpretazione di attori famosi che, malgrado la loro fama, non sono riusciti a trainare il film nelle sale. Uno di questi esempi è Little children (2006) diretto da Todd Field, con Kate Winslet, Jennifer Connelly e Patrick Wilson, definito dalla critica come uno dei film migliori della Winslet, ma mai uscito in sala.

Ma quali sono invece le ragioni per cui un distributore decide che un’opera cinematografica, spesso di buona o di alta qualità, non debba avere la possibilità di uscire nelle sale? Innanzitutto considerare che esista un solo pubblico, quello dei popcorn e dei multisala che ama farsi stupire dai film in 3D anche in una scialba versione costruita in postproduzione, la paura del flop, perché sulla carta la storia viene ritenuta poco interessante se affronta temi di un certo rilievo come ad esempio L’estate d’inverno (2010), opera d'esordio di Davide Sibaldi, un piccolo film italiano che racconta l’incontro tra un giovane e una prostituta che in un albergo di Copenaghen si confrontano dopo l’amore. In realtà oggi l'unico parametro dell’industria culturale, se vogliamo usare una definizione in voga fino a non molto tempo fa, è solo lo sfruttamento di un'opera, che deve possedere i requisiti corrispondenti al gusto medio del pubblico.

Per 25 anni i cinepanettoni hanno modificato nel bene e nel male la gloriosa commedia all’italiana degli anni sessanta, figlia del neorealismo fiorito nel dopoguerra, riducendola a un pastiche tra fiction tv e cinema triviale, ma non come quello sincero dei vari Pierini e Fenech. Ne è valsa la pena? C'è chi dice che con il ricavato degli incassi dei film natalizi si possono produrre film d’autore, anche se la parola "autore" dovrebbe in molti casi essere bandita. Ma se tutte le opere prime e i nuovi talenti vengono lasciati in balìa di un mercato che li ostracizza, che senso ha? Ogni anno si produce all’incirca un centinaio di film, di cui almeno il 30-40 per cento non è possibile vedere in alcun modo. Solo il 20 per cento finisce nelle sale con incassi che per la maggior parte non bastano a coprire nemmeno la promozione del trailer di un film. Possiamo solo sperare che qualcuno oggi abbia la lungimiranza di saper riconoscere un talento come quello dei vari Sorrentino, Garrone, Muccino, Virzì, qualcuno come Dino De Laurentiis che, in tempi ormai lontani e remoti, il cinema lo amava davvero.

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