Recensione di Good Kill con Ethan Hawke: Il disonesto santino all’America di Andrew Niccol, del tutto fuori luogo nel Concorso di Venezia 71
Non ci volevamo credere, nemmeno dopo quell’insulso film che era The Host (ma lì, ci dicevamo, era tutta colpa di Stephanie “Twilight” Meyer, che firmava il romanzo young adult di partenza); invece, di fronte al disastroso Good Kill, vergognosamente selezionato in Concorso al 71esimo Festival del Cinema di Venezia, l’ardua sentenza è inevitabile: Andrew Niccol ha perso il suo tocco, forse per sempre.
Il rinomato regista sci-fi, che aveva finora in curriculum quattro pellicole tutte impeccabili (Gattaca, S1m0ne, Lord of War e In Time), oltre che la sceneggiatura del capolavoro The Truman Show, e un solo passo falso (The Host, appunto) che s'immaginava impersonale perché su commissione, sembrava il nome perfetto per dirigere una storia vera che sapeva però di sconcertante fantascienza: la vicenda del Maggiore Tommy, pilota di droni (interpretato da un ahinoi imbolsitissimo Ethan Hawke) che seduto comodamente e al sicuro nella sua base a Las Vegas coordina una squadra d’azione impegnata a combattere il terrorismo.
Basta un clic e, a miglia e miglia di distanza, qualunque bersaglio si trovi nel loro mirino salta in aria. “Come giocare ai videogame”, insomma, solo che è tutto reale e quando i suoi superiori iniziano a impartirgli ordini discutibili (come bombardare una zona di mercato piena zeppa di civili perché si sospetta la presenza di talebani), Tommy va in crisi, allontanandosi sempre più dalla moglie (la January Jones di Mad Men, insipida all’ennesima potenza) e aggrappandosi unicamente al quasi capriccioso desiderio di tornare a volare (leggi: continuare a fare quello che fa, però su un aereo vero).
L’assunto si srotola senza troppi fronzoli nei primi venti minuti, e poco dopo Good Kill comincia già a mostrare il fianco, diventando tremendamente ripetitivo (lo schema è: individuazione del bersaglio-attacco-senso di colpa-litigio casalingo e riavvio) e autoassolutorio (gli innocenti fatti fuori sono incidenti di percorso inevitabili, i rimorsi di coscienza dei bravi americani sono profondi ma alla fine ci si sporca comunque le mani per il bene della nazione). Tutto avviene in maniera pigra e risaputa; non un sussulto, non un ragionamento (che percorreva persino In Time, il più commerciale dei lavori di Niccol), non un evento che scuota sul serio la narrazione, una vera e propria messa in discussione delle proprie azioni, all’interno di un racconto che avrebbe potuto sfociare nel delirio, nella follia o anche semplicemente in un ripensamento e una riflessione sull’assurdità della guerra che non restasse circoscritta – come invece accade – ai comizi dell’anziano e retto generale conservatore.
Il finale brutto e disonesto affossa definitivamente una pellicola che conferma il tracollo di un ottimo autore e che sancisce, per l’ennesima volta, l’insopprimibile bisogno degli americani di credersi eroi.
Voto della redazione:
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