Recensione di Hungry Hearts di Saverio Costanzo, con Alba Rohrwacher e Adam Driver - In Concorso Venezia 71: tra sentimenti irraggiungibili ed isolamento tornano gli esseri umani incongruenti di Saverio Costanzo
Hungry Hearts con Alba Rohrwacher ed Adam Driver è il secondo film italiano presentato in competizione quest’anno a Venezia e segna il ritorno al cinema di Saverio Costanzo dopo quattro anni. Il regista rimane fedele all’alone crepuscolare dei suoi precedenti film, il suo sguardo è ancora scavato, un solco d’occhiaie, spaventato e bisognoso di vedere allo stesso tempo. Senza giudizi e pittoricità osserva e non dice nulla, non cita, non allestisce: semplicemente filma, ma i suoi intenti sono impliciti nelle immagini. Con pudore spia i propri personaggi come se fosse un alieno, come se quel che ha davanti fosse del tutto nuovo.
Fatta eccezione per l’inizio con Flashdance e Tu si ‘na cosa grande, manca lo spirito pop del precedente La solitudine dei numeri primi, così come la fredda geometria di In memoria di me: Hungry Hearts si rivela un film dalle fattezze ancora più ruvide di Private, con una regia arrabbiata ed annebbiata (dalla grana della pellicola, dalla pioggia di New York), nervosa e silenziosa osservatrice nascosta ed incastrata negli angoli di un appartamento, di una toilette o dall’altro lato della strada, con la pelle del thriller claustrofobico, l’andamento lurido e sfacciato della camera a mano e dentro di sé nuovamente il tema difficile dell’umanità feroce, del cieco istinto, dell’errore e della sospensione del giudizio rispetto a ciò.
Il cineasta continua lungo il tema degli esseri umani difettosi, chiusi, blindati in loro stessi. Jude e Mina sono due nuovi freak, due esseri sociopatici, che non riescono a muoversi nel mondo, seppur sotto spoglie apparentemente normali (diplomatica lei, ingegnere lui) e in una vicenda che potrebbe tranquillamente essere due righe di cronaca nera o il solito servizio da telegiornale.
Una coppia, una gravidanza, i problemi di maternità e paternità, condensati nel conflitto su come nutrire il figlio. Non assistiamo a discussioni costruttive o a confronti diretti: dello scontro di personalità ci vengono date solo le tracce, i risultati, gli effetti negativi, come se tutto fosse già accaduto ed irrisolvibile, come un ricordo fumoso. Non si tratta dell’angoscia del quotidiano che s’affila nel matrimonio: la coppia si ritrova chiusa e sola, ma non assistiamo al meccanismo che lì li ha portati, con lo scafandro invisibile dell’isolamento che li stringe da lontano e poi li spezza in due. E non sono nemmeno l’essere genitori o il veganesimo. Sono tutti pretesti, senza parteggiamento alcuno. I cuori affamati del titolo sono affamati e basta. Ed insaziabili. Incongruenti. Disorientati. Destinati. Alla ricerca del vuoto.
Hungry Hearts annulla i punti di vista e tutto questo in mano a Costanzo ridiventa un incubo low-budget ad occhi aperti costruito sui detriti del romanticismo. E la grandezza di questo regista si ridimostra nel saper turbare utilizzando scaglie di non detto, pienamente convinto nel non voler andare a toccare i motivi scatenanti, nel non voler fare ricerca o denuncia e nemmeno ritratti, scardinando la vicenda che tratta, rendendola un insieme di occhiate fugaci alla tristezza, alla depressione, all’essere vivi, alla lontananza, dalle cose, dalle persone, da sé. I personaggi sembrano essi stessi allucinazioni, con i loro gesti apparentemente incompleti ed inspiegabili.
Sulla fiancata di un palazzo vicino all’abitazione dei due svetta una scritta che recita "Depression is a flaw in chemistry, not character" (all'incirca "La depressione è una questione di sostanze chimiche (del cervello), non di personalità"). Quasi a sostituire il titolo, come a dire che tutto è semplicemente naturale e scientifico e che quindi non lo si può raccontare o smontare e non ci si può entrare, ma solo guardare, accettare e vederne gli effetti, i terrificanti effetti.
Non è certo il miglior film del regista. La sua fame è ancora viva, ma si nota una certa fretta, un’accelerazione continua che smarrisce prima pezzi e poi il controllo, fino all’eccesso del finale, che arriva troppo veloce e staccato dal resto, quasi portandosi via la pietà costruita fino a quel momento. E una strana commistione di umiltà e sicurezza (altalenanti entrambe) sembra aver toccato questa pellicola, che del suo non particolareggiarsi, a tratti, sembra farne un vanto. Costanzo ha, dopo questo film, probabilmente esaurito le sue opzioni rispetto alle tematiche a lui care: speriamo in un futuro rinnovo formale. Intanto possiamo goderci ancora una volta i suoi cuori di vetro.
Voto della redazione:
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