Seconda parte di uno studio cinematografico e riflessione storica, geografica, culturale e sociale di un film, Gli amici di Georgia (1981) di Arthur Penn, e di un'epoca, quella americana dagli anni Cinquanta alla fine dei Settanta
È una transizione non da poco che, di fatto, traghetta anche la settima arte cinematografica verso la postmodernità e all’interno della quale hanno modo di nascere, maturare e anche finire intere generazioni di cineasti americani. Le vecchie leve trovano finalmente il giusto spazio e le giuste modalità per affrontare/sviluppare - in piena libertà creativa ma, fatto impensabile appena qualche decennio prima, con il fondamentale appoggio finanziario-pubblicitario delle major - tematiche in linea con il clima generale di sfiducia e disillusione e, più in generale, poetiche improntate su un pessimismo umano[1] che, alla luce delle precedenti esperienze mondiali tanto nel campo della vita quanto in quello dell’arte (il neorealismo su tutte, forse), coinvolgesse personaggi antieroici, perdenti, dimessi e malinconici, quotidiani e situazioni di sconfitta, di mancanza, di resistenza a perdere e dialettiche, anche di messinscena, sottotono, nel pieno rispetto dell’understatement, e in cui l’emotività soggettiva (dell’autore, della storia, dei caratteri) veniva in genere filtrata da uno sguardo obiettivo, a volte più o meno astratto, tendente in ogni caso alla stereotipizzazione degli esseri umani coinvolti e delle loro vicende, quasi una rielaborazione personale e collettiva, e sempre con una certa sensibilità spettacolare da “nuovo continente”[2], di teorie fortemente autoriali come quella zavattiniana del pedinamento. Anche le giovani leve di registi (presto denominati “movie brats”), il cui sguardo veniva sempre più filtrato da un modus operandi accademico e cinefiliaco, finivano per imparare in maniera empirica (diretta o indiretta, a seconda dei casi) il mestiere del cinema, per di più, appunto, con il collante intellettuale degli studi universitari e della divorante passione individuale, a rendere possibile la metamorfosi da semplice artigiano ad “autore” tout-court.
Un tratto curioso e, a ben guardare, fondamentale della ‘nuova gioventù cinematografica americana’, in netta controtendenza rispetto alla generale genetica marcatamente statunitense (se questo, beninteso, possa significare davvero qualcosa) degli autori dei decenni precedenti, è sicuramente il fatto di poter vantare più o meno remote origini europee, spesso e volentieri italiane. Il dato di sangue non solo collega idealmente le mentalità dei due continenti, e più concretamente le influenze vicendevoli, ma porta ad alti livelli di maturazione (intellettuale ma, parlando di cinema e di specifico della visione, anche formale) alcuni tratti cardine dell’intima natura statunitense, peculiarità che, in maniera del tutto conscia e volontaria, ritroveremo in tutto il grande cinema semi-indipendente di questa-e-non-solo decade. Un filo rosso del tutto etico che informa, certo con maggiore o minore enfasi, con maggiore o minore immediatezza, l’opera dei grandi (r)innovatori - leggi, fra gli innumerevoli: Malick, Cimino, Penn, Coppola, Polanski, Allen, Scorsese, Peckinpah, Schatzberg, Schlesinger, De Palma, Altman, Friedkin, Schrader, Pollack, Ashby, Spielberg, Milius - del cinema americano e quindi mondiale, in quanto, senza tante ansie di propugnare slogan dogmi o provocazioni a rapidissima combustione (è il caso delle esperienze underground appunto, esauritesi in breve tempo o rimaste soffocate e marginali in primo luogo per le loro scarse possibilità ricettive[3] e per la loro congenita natura ‘estrema’ incapace di cogliere, fra l’altro, i possibili sussulti vitali dei compromessi), compresero che la via per il futuro, e dunque la modernità, potesse/dovesse prevedere il recupero della sana, vecchia classicità, poi più o meno vivificata secondo lo stile individuale e i mezzi espressivi del nuovo corso storico in cui si trovarono a operare.
Ciò che di fatto è evidente, nel cinema americano di quel periodo, e questo tanto nelle opere degli americani “purosangue” tanto in quelle degli americani di seconda (o altra) generazione tanto in quelle degli emigrati/americani adottivi, è la schietta testimonianza, visiva e interpretata, di una sana fierezza che, lontana anni luce dal superbo orgoglio, è forse uno dei sintomi più autentici e poetici dell’essenza statunitense. Una fierezza che, guarda caso, è anche un tratto sintomatico della natura degli immigrati: “l’immigrazione è la storia degli Stati Uniti. È la sua essenza e la sua ricchezza. Senza immigrazione questo Paese non esisterebbe. E, naturalmente, non sarebbe forte com’è”, illustra lo storico Oscar Handlin nel suo saggio The Uprooted (1950), un libro che ha dato alla figura dell’immigrato una nuova coscienza di sé, una nuova fierezza appunto, il senso di non essere sopportati ma di appartenere agli Stati Uniti, cementando le diverse etnie con un forte comune denominatore, nonostante le profonde differenze di origine e alcune diffidenze che, in verità, non sono mai venute meno del tutto. Alla pari degli immigrati, del resto, sono sovente le figure principali delle opere cinematografiche degli anni Settanta: sradicati, appunto, fragili e senza meta (anche se, ostinatamente, cercano di trovarla lungo le strade da costa a costa), in balia di eventi (la Storia) incontrollabili o, alla meno peggio, sempre più grandi di loro. Antieroi, si è detto, e per questo, forse, gli unici, veri, possibili eroi[4]: umanissimi, contraddittori, commoventi[5]. Esseri umani - e storie, le loro, e mood, degli autori - che, per dirla con il giovane Holden, lasciano secchi, e almeno a mio avviso senza possibilità di appello.
Se il Sogno Americano si è definitivamente trasformato nel suo rovescio - l’imperialismo militare mutato in vergognosa ritirata nel Vietnam teatro o semplicemente contesto di innumerevoli pellicole -, non è detto che non si possa continuare a essere americani e, soprattutto, a essere (o perlomeno recitare di essere) orgogliosi di questo: da sempre, per genesi, l’America è cresciuta con i miti del perdono e della seconda occasione. Non c’è via di scampo: l’atto di nascita è rappresentato proprio dall’ostinata ricerca di una nuova identità in cui credere e annullarsi, nel tentativo di rimuovere le colpe del passato e di perseguire una (seconda) felicità. Nel finale de Il cacciatore [The Deer Hunter] di Michael Cimino, gli amici rimasti, ‘reduci’ in senso lato, non trovano di meglio che intonare la musica e le parole dell’inno God Bless America per “trasfigurare la commozione del lutto nel bisogno di speranza”, e senza che ci sia retorica in questo: anzi, è una “perfetta e commovente rappresentazione del vitalismo assolutamente non ideologico di una nazione e di una cultura”[6]. Ambiguità e complicità, del resto, sono i due poli speculari attraverso cui il filosofo Ermanno Bencivenga muove i fili del suo discorso sul perché amiamo e perché detestiamo gli Usa nel suo bel saggio Le due Americhe; e anche lui individua nell’apertura culturale e nella fierezza i connotati più spavaldi e invidiabili del Paese in cui, anni fa, ha deciso di stabilirsi e di vivere, crescendovi come autore, come insegnante, come uomo, così ricorda nella intensa prefazione in cui confessa che nell’America ha visto qualcosa più dell’America. Esattamente, forse, come qualsiasi immigrato; esattamente, questo sicuramente sì, come Danilo Prozor, emigrante jugoslavo e protagonista principale de Gli amici di Georgia, il film di Arthur Penn (s)oggetto di questa analisi.
“Fierezza giustificata, dunque, ma anche, a ben vedere, controproducente. Quel che ha fatto la forza di questo paese non sono le sue risorse fisiche e ambientali, che si trovano in misura altrettanto cospicua in Canada, in Brasile e in Russia […], ma l’ampiezza di vedute e l’accavallarsi di proposte avanzate dai tanti ‘stranieri in patria’ che vi circolano: dai tanti che sono nati altrove e che qui hanno portato prospettive inconsuete, convinzioni aliene. Dai membri di quella che ho chiamato la prima America, insomma: dagli immigrati. La seconda America, però, quella che ho provvisoriamente identificato con chi vi è nato e cresciuto, procede spesso in senso opposto: chiudendosi alla diversità, facendo dell’orgoglio di essere americani uno scudo contro ogni apporto esterno, quindi contro le radici stesse di quell’orgoglio – contro ciò che lo ha reso possibile e credibile”[7].
Mitigando il pessimismo storico-culturale diffuso con afflati di umanesimo orgogliosamente naïf, alla stregua della letteratura patria più riuscita e più sincera (sommariamente: da Mark Twain e Herman Melville a Kerouac e J.D. Salinger, passando per Steinbeck e Hemingway), ciò che il cinema americano degli anni ’70 aveva, e mantiene, di miracoloso, come e forse più di qualsiasi altra golden age, era appunto la capacità di far penetrare la realtà di singole, minime, a volte finanche disinteressanti storie private nella dimensione - questa universale - di una cornice pubblica che avesse una principale funzione espressiva: rendere le emozioni, e non tanto la vicenda narrativa o i personaggi in sé, assolutamente prossime alla soggettività di qualunque spettatore di qualsiasi parte del globo. Le due sfere non erano mai viste l’una come mero corollario dell’altra, e non si creavano così compartimenti stagni freddamente distanziati: la sensibilità dell’epoca, anzi, maturata certo anche attraverso lo studio dei classici e delle esperienze di rottura in particolare, permetteva una disinvolta compenetrazione fra intimità e visione della società che ancora oggi lascia spesso stupefatti. Detto questo assunto, è più semplice comprendere come qualsiasi narrazione poteva dunque raggiungere le cadenze di un’epica contemporanea e assumere l’andamento ritmico perseguito tenacemente da autori che non avevano alcuna fretta di dimostrare la loro bravura o la loro profondità, preferendo invece - da entomologi obiettivi ma, sfumatura cruciale, del tutto innamorati dei propri soggetti - contemplare la naturale evoluzione dei personaggi e degli accadimenti che avevano preventivamente deciso di seguire. In Four Friends, Arthur Penn “pedina” senza essere pedissequo le peripezie esistenziali di un quartetto di amici (e addirittura, di esso, mette a fuoco principalmente due caratteri e basta), riuscendo però a inserire il loro percorso di formazione in un discorso di più ampia portata storica e metaforica. È uno scarto importantissimo, anche se rischia di suonare banale: in una prospettiva artistica del genere, pure i simboli, ricondotti alla loro origine terrena piuttosto che esasperati per le loro opportunità di astrazione[8], assumono i connotati dell’universalità e possono diventare immediatamente comprensibili, intuibili o, se non altro, portatori di fascino più che di senso (aggiunto)[9].
Non solo: la stagnazione storica in cui l’America si era infilata produsse, all’interno dei cineasti più di nicchia e di maggior talento, certamente un “effetto nostalgia” ugualmente accorato e, per riflesso, emozionante. Avendo a disposizione una società che aveva fatto di tutto per rendersi non credibile e sospettosa, avendo a disposizione un governo trafficone e a prova di fiducia, il cinema in quanto possibile, efficace rappresentazione della realtà iniziò - negli anni Settanta siamo già entrati nella fase definita ‘postmoderna’, specie se reputiamo attendibile la brillante intuizione del teorico Baudrillard che indicò in Sergio Leone, già attivo da un decennio, “il primo regista postmoderno della storia del cinema” - a riflettere su sé stesso e, tramite ciò, a riflettere non solo ambiguità e distorsioni del mondo reale (che era e che era stato) ma, anche e soprattutto, proporre, dal suo interno, veri e propri modelli di comportamento, portando così a maturazione, e innalzandoli sempre più a elementi feticistici, fenomeni del tutto storici quali il divismo e l’invidiosa omologazione nei confronti dello star system.
[1] È sempre Costa a schematizzare le fasi attraverso le quali il cinema americano ha riconquistato la supremazia mondiale: 1) Revisione ideologica (e rinnovamento estetico) dei generi classici di Hollywood; 2) Aggiornamento dell’iconografia dei generi tradizionali; 3) Commistione dei generi e integrazione delle tecnologie. Ivi, pp. 133-134
[2] Come ricorda La Polla, l’interesse per la realtà quotidiana, nei registi americani soprattutto giovani, si traduce di fatto anche in una libera interpretazione dello spazio, delle superfici, della luce, del movimento e degli oggetti attraverso la quale è possibile rinvenire i tratti di una vera e propria “poetica dell’iperrealismo”. Franco La Polla, Il nuovo cinema americano, Marsilio, Venezia, 1978
[3] La ricerca di un pubblico giovanile e l’attenzione al costume e alla politica rientrano fra i fattori fondamentali della rivoluzione estetica teorizzata da La Polla. Franco La Polla, USA: Come continuare a raccontare storie, in Lino Micciché (a cura di), Film 81, Feltrinelli, Milano, 1981
[4] “Eroi inquieti della rivolta” li definisce Fernaldo Di Giammatteo. Fernaldo Di Giammatteo (a cura di), Dizionario del cinema americano, Editori Riuniti, Roma, 1996, p. 67
[5] In questa ottica, è evidentemente rétro la svolta autoriale di un certo cinema americano recente, indipendente nello spirito eppure quasi blockbuster in apparenza; il cinema umano e appassionato (prima che, con esiti differenti a seconda dei casi e della sensibilità di chi guarda, appassionante), ovvero, senza distinzioni di sorta fra East e West Coast, dei vari Paul Thomas Anderson, Sofia Coppola, Alexander Payne, David O. Russell, Spike Jonze, Darren Aronofsky, Wes Anderson. Confermati i ritmi senza fretta, divaganti e imprevedibili, tuttavia, ciò che col tempo si è semmai perso, almeno in alcuni autori, è proprio la visione della società sullo sfondo.
[6] Paolo Mereghetti (a cura di), Il Mereghetti - Dizionario dei film 2006, Baldini Castaldi Dalai editore, Milano, 2005, p. 415
[7] Ermanno Bencivenga, Le due Americhe - Perché amiamo e perché detestiamo gli Usa, Mondadori, Milano, 2005, p. 25
[8] Per restare nel campo degli esempi spiccioli, il panismo antropologico di Terrence Malick contiene già in nuce, semplicemente tramite la forma espressiva, la sua ragione d’essere e il suo messaggio, senza che per questo venga svilita la sua portata filosofica. La prassi, certo con i debiti distinguo, è quella adottata dai maggiori cineasti del periodo: da Taxi Driver ad Apocalypse Now, simboli e allegorie sanno essere chiare e sfuggenti al contempo, di modo che, anche saltando un’interpretazione, la visione d’insieme, unita al godimento estetico che la stessa solitamente assicurava, non subiva flessioni.
[9] Riguardo al valore metaforico e alla potenza surreale del cinema, appare allora immediatamente sintomatica, ne Gli amici di Georgia, la sequenza del matrimonio che finisce in tragedia, con un padre che uccide la propria figlia e un marito che perde di colpo la propria sposa: ciò che all’inizio può dare l’idea di essere una concessione di Penn nei confronti della divagazione bizzarra, a ben vedere vuole rappresentare tutt’altro e ciò che ne emerge - quasi una parafrasi visiva della celebre favola della rana e dello scorpione - è, in fondo, un quadro moralmente ancora più confuso e contraddittorio di un’America prima pronta ad accettare e poi ancora più capace ad annientare.
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