Autore Dario Gigante :: 12 Aprile 2016

Cinque tra le più memorabili monache viste al cinema e le loro interpreti

Silvana Mangano in "Anna" di Alberto Lattuada

Basterebbe ricordare che, negli anni settanta, una delle declinazioni del softcore era il filone erotico-conventuale per asserire quanto il cinema abbia speculato sul corpo e l’animo delle monache. Certo, non di sola libidine si è nutrito l’immaginario di sceneggiatori e registi, ma di ben altri dissidi intellettuali e morali. Cinque casi esemplari…

1. Silvana Mangano in Anna (1951)
In cima non poteva che esserci lei. Dietro la solerzia con cui l’infaticabile novizia Anna si prodiga per i degenti in ospedale si celano i trascorsi di una donna perduta. Anna è stata una soubrette (nell’Italia di allora, una prostituta o quasi) che ha cercato di “redimersi” attraverso l’amore puro per un bravo ragazzo, ma non ha resistito alle lusinghe di un manigoldo (e della carne). Generando, così, una tragedia. Il terzetto d'interpreti di Riso amaro (Vittorio Gassman, Raf Vallone e, contesa tra i due, la conturbante Mangano) permette ad Alberto Lattuada di realizzare un best seller da sfondamento, ma anche un cupo mélo sorretto da un'ottima narrazione a flashback e dominato dal tema principe della sua filmografia: il desiderio erotico femminile. Con una Mangano in odor di leggenda, citata pure da Nanni Moretti in Caro diario. Lattuada, dal canto suo, con le suore ci andrà a nozze (in senso figurato), mettendo il velo anche a Pascale Petite in Lettere di una novizia (1960) e a Sophia Loren in Bianco, rosso e... (1972).

2. Anna Karina in Suzanne Simonin la religiosa (La religieuse, 1966)
Sopravvissuto a una censura che, all'epoca, si scatenò implacabile, il personale adattamento che Jacques Rivette girò del romanzo epistolare di Denis Diderot, un classico della “monacazione forzata”, resiste al tempo come un saggio eloquente delle sopraffazioni del sistema sull'individuo. Karina, che si era già cimentata nel medesimo ruolo a teatro con la regia dello stesso Rivette, offre una performance straniata e saturnina. Indimenticabile.

[Leggi anche: Morto Jacques Rivette, maestro della critica cinematografica, faro della Nouvelle Vague]

3. Vanessa Redgrave nei Diavoli (The Devils, 1971)
Dall'episodio seicentesco delle ossesse di Loudon, Ken Russell trae, con la mediazione di Aldous Huxley, un film, alla sua maniera, concitato e febbrile, e Redgrave si rivela un'alleata preziosa, soprattutto per come padroneggia la dimensione grottesca del personaggio di sorella Jeanne, colta, nel generale clima di scompiglio, da irrefrenabile passione per il padre Grandier di Oliver Reed. Da notare, nel cast, anche una giovane Gemma Jones.

4. Meryl Streep nel Dubbio (The Doubt, 2009)
Certo, anche Amy Adams e Philip Seymour Hoffman meritano un menzione, ma nella bellissima motion picture che John Patrick Shanley ha ricavato dal suo play, è, come sempre, Streep a giganteggiare, nella parte di suor Aloysius, direttrice bacchettona e reazionaria di una scuola cattolica dei sobborghi, che rivelerà una tempra da leonessa quando si tratterà di difendere i bambini dalla minaccia di un'innominabile perversione (non a caso, mai chiamata per nome...). Ma la verità è sdrucciolevole. E il dubbio di aver inteso rettamente, di aver agito bene continuerà ad agire come un tarlo.

5. Whoopi Goldberg in Sister Act – Una svitata in abito da suora (Sister Act, 1992)
È vero, Deloris non è una vera suora, ma una cantante che, testimone di un crimine, viene nascosta dalla polizia in un convento dove, come noto, tramuterà un coro di stonatissime monache in un fenomeno soul. Tale fu, tuttavia, il successo della commedia di Emile Ardolino da introdurre una Goldberg così cammuffata tra le icone degli anni Novanta. Il quinto posto è meritato.

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