Recensione di La pazza gioia | Due pazienti psichiatriche in fuga per le campagne toscane nel nuovo film cannense di Paolo Virzì, che con la leggerezza di una fiaba ci racconta a suon di terapie il ritorno della vera commedia italiana
Nel 1920 Robert Wiene con Il gabinetto del dottor Caligari dava inizio ad una delle collaborazioni forse più longeve nella storia della cinematografia, quella tra la pellicola e la malattia mentale. Lars von Trier, Polanski, Bergman, Hitchcock, Nolan, Zulawski, Forman. Non c'è da meravigliarsi che il cinema abbia sempre subito il fascino della psicopatologia, perché una narrazione che segue i deliri di un malato offre agli autori la possibilità di sperimentare senza essere mai off topic. Ma soprattutto si adatta a qualsiasi genere.
Paolo Virzì opta per la commedia drammatica, cambiando completamente rotta dopo il cinismo nero e gelido che aveva messo in scena ne Il capitale umano.
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La pazza gioia, presentato durante il Festival di Cannes 2016 alla Quinzaine des Réalisateurs, racconta le vicende di due pazienti psichiatriche scappate da una comunità terapeutica; in fuga per chiudere i conti con il passato e poter provare ancora una volta un frangente di quella vita che ormai è parte delle reminiscenze notturne. Una sorta di Thelma & Louise disperse nelle campagne toscane e con gli psicofarmaci nella borsetta, destinato a portare le sue protagoniste nell'olimpo delle più indovinate coppie del cinema al femminile, al di là di ogni giudizio sul film.
Virzì c'è. Lo dimostra con una regia compatta che riesce fino alla fine ad avere la meglio, non senza qualche intoppo, su una scrittura di per sé ostica e molto insidiosa, soprattutto per la sua tendenza ad essere statica e fin troppo lineare. Ad ogni battuta si ha sempre il timore di essere arrivati a quel punto di rottura in cui la comicità si trasforma in tedio o scontatezza, ma il film riesce sempre a mantenersi entro un certo limite, divertendo fino all'ultimo e strappando anche qualche lacrima. Il merito va anche all'immedesimazione totale di due attrici del calibro di Valeria Bruni Tedeschi e Micaela Ramazzotti, che con la forza emotiva delle loro interpretazioni compensano un leggero deficit di carattere nello stile narrativo.
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Un po' come in Persona di Ingmar Bergman, il regista crea una situazione in cui l'ego di ognuna delle sue protagoniste emerge dove finisce quello dell'altra. La personalità istrionica di una donna dalla parlantina costante trova continuità con il silenzio e le nevrosi di una eccessivamente laconica e lapidaria, fino a portarle ad una complementarietà che è la chiave per la cura delle loro patologie e forse, per la felicità.
Nonostante alcune tematiche al centro dell'opera siano molto forti e controverse, il tono complessivo del film rimane sul sognante, ovattato, a tratti fiabesco, senza la pretesa di voler tirare in ballo alcuna morale o denuncia, che come afferma il regista, è già presente in molte altre valide pellicole alle quali non sentiva di poter aggiungere nulla. Lo stigma sociale che circonda i pazienti psichiatrici viene ribaltato e anziché una critica diventa un pretesto per sorridere e guardare oltre, con una leggerezza che si estende anche alle sequenze più dolorose, che paiono quasi liberatorie, grazie anche alla fotografia di Vladan Radovic (David di Donatello per il film Anime Nere) che esalta i colori caldi e la delicatezza degli ambienti.
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Essenziale, conciso, bello. Una storia limpida e sincera come non si vedeva da tempo, tra cineasti alle prese con plot ultraelaborati, corse agli effetti speciali all'avanguardia e frenetiche ricerche di stili narrativi sempre più complessi, ci si era dimenticati di quanto valesse la pena andare al cinema anche solo per affondare nella poltrona e abbandonarsi alle emozioni più semplici. Che poi è ciò che negli anni ha dato gloria al cinema italiano, e Virzì se lo ricorda bene.
Voto della redazione:
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