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Autore Giulia Marras :: 12 Aprile 2016
Locandina di Mistress America

Recensione di Mistress America | Scritto insieme alla protagonista Greta Gerwig, il nuovo film del newyorkese Baumbach è una delle scritture più raffinate del cinema d'oggi, disamina brillante e disperata dell'horror vacui dei Millennials

                          She was the last cowboy, all romance and failure. The world was changing, and her kind didn't have anywhere to go.

Presentato in anteprima alla decima Festa del Cinema di Roma, con Mistress America Baumbach prosegue la sua disamina chirurgica ma affezionata delle identità contemporanee in crisi, iniziata con Frances Ha, scritto come quest'ultimo insieme a Greta Gerwig, e Giovani si diventa. Attraverso una personalissima deviazione dall'indie già a partire dal primo lungometraggio Il calamaro e la balena (prodotto da Wes Anderson, con cui scrisse Le avventure acquatiche di Steve Zissou), il regista newyorkese si sta affermando velocemente come nuovo cantore degli eterni adolescenti, dei disoccupati benestanti (o quasi), dei velleitari da social media, dei millennials con “problemi di procrastinazione”.

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Come un Woody Allen meno cinico ma più amaro, o un Peter Bogdvanovich più intimista, Baumbach, insieme alla musa e compagna, firma una delle sceneggiature più vivaci e tenere dell'anno e della sua filmografia, nella forma di un racconto breve che una delle protagoniste, Tracy (Lola Kirke) va scrivendo sulla sua futura sorellastra Brooke (Greta Gerwig), che agli occhi della più giovane è la super-eroina che incarna l'America, con i suoi sogni e (soprattutto) i suoi fallimenti. 

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Accostando diciottenni e trentenni (i nostri NEET) – e anche qualche quarantenne, riprendendo il filo di Giovani si diventaMistress America, ispirandosi dichiaratamente a titoli come Fuori Orario, Cercasi Susan disperatamente, Qualcosa di travolgente, è una screwball comedy brillante e disperata, logorroica e isterica, nel tentativo di dare una voce testarda ma malinconicamente consapevole all'horror vacui contemporaneo riempito da Twitter e aperitivi. 
Baumbach sa benissimo che il suo materiale non si presta a nuove forme cinematografiche (“sembra di essere in un videoclip musicale”, ammette Tracy) ma perché è proprio il cinema, e ancora di più l'ossessione di immagazzinare immagini, nel tentativo di vivere e condividere l'immagine di sé come un prodotto audiovisivo confezionato, a dare forma alla vita contemporanea – in Giovani si diventa il genere documentario più classico, oggettivo ma sempre tragicamente incompiuto, veniva ribaltato dallo sguardo invasivo e onnivoro delle nuove generazioni. Ma nell'ultimo lavoro Baumbach si arrende, e nella seconda parte costruisce uno spettacolo teatrale coreografato magistralmente in un unico spazio, in cui si affida alla drammaturgia della parola e del suo gruppo improvvisato e sgangherato di attori.

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In Mistress America, ancora una volta, è il sorriso rassegnato e tenace ad emergere eventualmente, quello di chi “non è stato cresciuto in un certo modo”, mantra di Brook-Gerwig (che intanto conferma il suo talento di rara aderenza e dedizione alla complessità del personaggio), di chi continua a bussare alle porte, a inseguire persone per trovare il famoso “posto nel mondo” e non ce la fa, ma se la cava lo stesso.

Trailer di Mistress America

Voto della redazione: 

4

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