Recensione di Vizio di forma di Paul Thomas Anderson con Joaquin Phoenix, Josh Brolin, Reese Witherspoon: un mescolarsi di genere ed atmosfera, disorientante ed evocativo di noir e nonsense, capace al contempo di aprire voragini di dubbio formale
Un Joaquin Phoenix più lercio del solito, Josh Brolin e Reese Witherspoon guidano il cast di Vizio di forma, film con cui Paul Thomas Anderson torna a dover gestire una trama senza abbandonare lo spirito aulico delle sue opere più recenti.
Il giallo, le bislaccherie di ogni personaggio, la psicotropa trasversalità (quando si fuma e si sniffa, quando è la regia stessa): il regista di Magnolia realizza un cocktail di elementi in cui infine nulla prevale né tantomeno riesce ad apparire nettamente pretestuoso. Un mangia-e-bevi dove i pezzi delle performance galleggiano, i frammenti mystery scivolano abbondanti e veloci e la follia (naturale, indotta, demenziale, latente o meno) disorienta continuamente. Il tutto immerso in calura e colori fluo, in un'atmosfera di sogno, lontananza, annebbiamento, alterazione cromatica e psicologica della quale è il regista stesso il primo ad apparire infatuato ma mai del tutto succube, col pieno controllo delle sue intenzioni sinfoniche.
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In un movimento-monumento all’animale essere umano dallo sguardo particolareggiato quanto imponente, destreggiandosi tra generi ed omaggi, rielaborando un determinato nonsense alla fratelli Coen (ma molto meno collaudato e schematico), Vizio di forma ha la forza motrice sensoriale, la seduzione del ricordo ubriaco, la perdizione appagante del noir, apparendo come questa enorme caraffa di sangria condita di pillole, una rimescolanza continua dove muovere passi indagatori, cangiante e senza autentica conclusione, con la continua sensazione di essere arrivati troppo tardi, di non aver carpito o notato ogni particolare.
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Con lo scorrere lento e torpido delle scene (sempre) private, nell’acido delle immagini, l’autore riesce per la terza volta (dopo Il petroliere e The Master) a dare amorfa complessità e al contempo rendere più complice una propria opera col puro apporto della regia, a stimolare il ritorno e l'approfondimento. Nel film ciò che sembra premere fino ad imporsi in ogni singola sequenza è un senso di elevazione e di riempimento, di suggerimento di valori sommersi, che talvolta appare come maestria ed altre come supponenza, ma sempre e comunque naturale ed istintivo e congenitamente insoluto, proprio di un cinema ora raro.
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Ma se nel dipingere singole figure con i film precedenti Anderson rimaneva ad ogni modo l’unica guida (visiva e spirituale) a cui affidarsi, di fronte a maggiori snodi e personaggi – nonostante legati alla stessa pulsione di fondo – non si può non paventare l’inganno, anche con tutti i rischi che lo scetticismo comporta, perché Vizio di forma, con una trama che non viene mai abbandonata del tutto, non riesce a diventare completamente un film d’atmosfera o simbolico.
Dove appoggiare gli occhi e i sensi? Come soddisfare il voler tirare le fila? Qual è la chiave tra i due? C’è il rischio di tracimare nei ragionamenti, di cadere nella congettura, di confondere bluff e poetica, stile e marcatura, vizi e difetti, davanti a questo bivio che il regista non riesce a dissolvere del tutto. Ma forse proprio per questo Vizio di forma rimane un film destabilizzante, capace di continuare a pizzicare anche dopo la visione, imperfetto ed intermittente, mancante ed avvolgente, allucinato e fatuo, respingente voti e stellette al neon, da accendere e spegnere a seconda dei momenti.
Voto della redazione:
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