The mysterious island: come far pace con il genere avventuroso
Da bambina divoravo i romanzi di Jules Verne. Da piccola nerd qual ero, amavo risolvere gli enigmi che ponevano, coinvolgendo direttamente i loro lettori. Ricordo con piacere quasi ancestrale la mia prima lettura di Viaggio al centro della Terra, un’estate all’isola d’Elba. Furono momenti talmente intensi che ricordo perfino l’edicola dove mio padre l’aveva acquistata (le librerie erano un luogo raro per me, nonostante io amassi leggere in provincia si poteva ambire al massimo a una cartolibreria), la copertina dell’edizione economica – Editoriale Del Drago – contraddistinta da rilievi dorati, le pagine ruvide, con caratteri microscopici, che sfogliavo avidamente, curiosa di scoprire se avessi risolto gli indovinelli e le indicazioni misteriose.
Poi, crescendo, mi sono pian piano allontanata dal genere avventuroso e dalle produzioni a esso connesse. Un po’ per noia – spesso le storie avventurose diventano seriali, siano esse fumetti, romanzi o film, e la loro struttura resta sempre la stessa – un po’ perché lo consideravo un genere più “fanciullesco”, da bambini, e per di più da maschi. Così ho abbandonato non solo Jules Verne, ma anche Robert Louis Stevenson, di cui avevo divorato L’isola del tesoro, Jonathan Swift e I viaggi di Gulliver (nella edizione Mursia il cui formato, in seguito, mi avrebbe accompagnata da adolescente alla scoperta della scrittrice per ragazze Giana Anguissola, ma questa è un’altra storia), e le immancabili Avventure di Huckelberry Finn e di Tom Sawyer, con la magistrale scrittura di Mark Twayn che mi assorbiva in un universo parallelo distante un secolo e mezzo prima.
Tutti questi libri erano differenti e simili tra loro, ma avevano un comune denominatore che ho ritrovato proprio nel film L’isola misteriosa, proiettato sabato 11 ottobre 2014 al Festival del Cinema Muto di Pordenone: erano contraddistinti da un gusto smodato per i viaggi e l’incognito, ovvero da una smania di conoscere e di scoprire, smania che rinveniamo per la prima volta nella storia della letteratura in quel romanzo d’avventura ante litteram che è l’Odissea di Omero. Mi è tornato in mente il poema epico, quando uno dei protagonisti del film di Hubbard, prossimo alla morte, vuole sfruttare fino all’ultimo respiro (è il caso di dirlo, dato che nella storia rischiano di morire per asfissia nel sottomarino con cui si calano negli abissi marini) il tempo che gli resta da vivere, andando a esplorare “qualcosa che nessun altro essere umano ha mai visto prima”.
Questo gusto per la scoperta, questo incanto verso il nuovo e anche un certo amore per la tecnologia si respira nei romanzi di Verne – penso al Viaggio al centro della Terra succitato, ma anche a Ventimila leghe sotto i mari e ai Figli del capitano Grant, questi ultimi parte della trilogia assieme all’Isola misteriosa, appunto. E se questo film ha un merito, è proprio quello di riportare per intero tale spirito.
Soggetto a numerosi ripensamenti in corso d’opera, addirittura con un cambio di regia a metà delle riprese e con molti attori ad aver abbandonato il set, il lungometraggio, nella sua ingenuità e a volte nella difficoltà di comprensione del filo della trama, annovera tuttavia numerose caratteristiche, specialmente estetiche, ben riconoscibili, in primis l’uso del colore, bene accolto dalla critica dell’epoca. Scriveva il «Washington Post» in occasione dell’uscita del film: “Invece dei paesaggi, dei fiori e dei ricchi costumi che solitamente sono il fulcro di questo tipo di film, qui vediamo i macchinari e le meraviglie del laboratorio di un inventore esaltati dal colore. Le luci lampeggianti rosse, verdi e bianche delle spie elettriche e dei quadranti luminosi; i bagliori cangianti dei liquidi colorati negli apparecchi di vetro; i rossi bagliori delle fiamme delle forte della grande officina dove si fabbricano in segreto sottomarini; i riflessi mutevoli sui pistoni lucidi e i volani, tutto si combina nel trasformare quello che avrebbe potuto essere un misero sfondo nel cuore vibrante e pulsante dell’intera scena” (dal catalogo delle Giornate del Cinema Muto 33, p. 107).
Considerato perduto nella sua versione a colori, era stato duplicato negli anni Sessanta in bianco e nero, mentre una copia a colori era stata preservata negli anni Settanta presso il Národni Filmový Archiv di Praga da una copia nitrato incompleta, con in ceco le didascalie. Manca però il rullo finale, sostituito per la proiezione alle Giornate 2014 ricavandolo da una copia in bianco e nero con didascalie in inglese della Cineteca del Friuli.
Se mi soffermo così tanto su questi dettagli tecnici, con questa attenzione soprattutto verso l’uso del colore, è per meglio entrare nella mentalità dell’epoca in cui il film uscì. Seppure con l’innovazione del Technicolor, il film, essendo muto, era già “roba vecchia”. Ma posso rivivere lo stupore con cui venne accolto, se soltanto mi immedesimo nella bambina che leggeva Verne in spiaggia, e i romanzi di avventura considerati “da maschi”. Proprio per questo motivo, guardando quei film, mi sono rappacificata con il genere avventuroso da così lungo tempo abbandonato: ho rivissuto per intero l’incanto di quei giorni, grazie anche a trovate ingenue quali il polpo “interpretava” il mostro marino, il sommergibile che nelle riprese da lontano era chiaramente un modellino, e il colore, che in un mondo fino ad allora in bianco e nero deve essere parso qualcosa di quasi fantascientifico.
The mysterious island (L’isola misteriosa)
Metro-Goldwin Meyer Corp. – US 1929, versione muta
Regia: Lucien Hubbard
Basato sul romanzo L’Île mistérieuse di Jules Verne (1874)
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