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Autore Luca Ceccotti :: 23 Ottobre 2016
Locandina di The Birth of a Nation

Recensione di The Birth of a Nation: Nate Parker presenta alla Festa del Cinema di Roma la sua violenta visione sulla schiavitù

Molti film hanno trattato nel corso del tempo il delicato tema della schiavitù, ma in pochi hanno avuto il coraggio di descriverlo per quello che fu realmente, e cioè il più lungo e violento errore civile della storia sociale e politica americana, intriso di odio e ipocrisia.

Forse Django Unchained di Quentin Tarantino, ultimamente, ha mostrato in modo meno retorico del dovuto la questione, riuscendo nella maniera pungente del regista a raccontare il predominio bianco sui neri molto più sinceramente e intelligentemente del Premio Oscar 12 anni schiavo, che invece aveva una certa difficoltà a ingranare la marcia giusta, scuotendo la coscienza collettiva attraverso un’estetica importante ma senza l’obiettivo di veicolare un messaggio diverso dal classico “la schiavitù non fu cosa giusta”. Un film, nella sostanza, che dimostrava come anche un regista afroamericano non fosse sinonimo di novità e sicura qualità per un progetto a tema. Praticamente l’esatto opposto del primo lungometraggio di Nate Parker, The Birth of a Nation, un progetto che già dal titolo –diretta citazione dell’omonima pellicola razzista del 1915- dimostra che il solo modo di combattere e riportare la violenza di una pratica immonda e amorale è un approccio simile, senza mezzi termini, abbracciando in toto il malessere generale di una popolazione arrivata nel Nuovo Mondo in catene e ancora oggi vittima di soprusi, nonostante gli sforzi per combattere un odio davvero senza tempo, costante e irriducibile.

E allora l’opera prodotta, scritta e diretta da Parker si dimostra essenziale e necessaria proprio per quello che ha da dire e per come è concepita: la lotta prima religiosa e pacifica, poi suicida e sanguinosa di una “nazione” silenziosa e oppressa, che nella sconfitta e nella morte riuscì e imporsi con una prima scintilla di orgoglio e appartenenza al predominio degli allora padroni, distruggendo in sole 48 ore una certezza ancora inscalfibile nei loro cuori: gli schiavi sarebbero stati liberati. A guidare la rivolta fu Nat Turner, lavoratore nelle piantagioni di cotone che da bambino imparò a leggere, soprattutto testi sacri come la bibbia. Crescendo cominciò poi a predicare ai compagni durante le poche ore di libertà, perché se c’è una cosa che accomuna bianchi e neri è il timore di Dio, non solo misericordioso e caritatevole, ma anche vendicativo. E le anime dei due testamenti convivevano armoniosamente nelle perole di Nat, finché, costretto a parlare ai fratelli schiavi di altre piantagioni per bloccare sul nascere un forte dissenso, il protagonista non deciderà di abbandonare il perdono a favore di un imposizione violenta di diritti fondamentali ancora impensabili ma presenti nel cuore di ogni afroamericano prigioniero.

The Birth of A Nation si fregia del difficile compito di rendere palpabile l’orrore della schiavitù grazie a immagini visivamente energiche e spietate, calcando anche un po’ la mano su svariati riferimenti cristologici, certamente funzionali all'idea del regista ma secondari rispetto alla fisicità dell’opera. Il protagonista è dipinto come un salvatore, una sorta di messia mandato sulla terra con il solo scopo di accendere il fuoco della rivoluzione e aprire un’era di cambiamenti. E così infatti è stato, e Parker con una malcelata autoreferenzialità ce lo ricorda anche nello splendido finale, dove viene messo in scena il mutamento storico imminente, solcando i lineamenti di Nat per passare a quelli di una nuova incarnazione della salvezza: un altro semplice uomo, soldato coraggioso alla guida di un popolo ormai insorto al grido di "libertà".

 

Trailer di The Birth of a Nation

Voto della redazione: 

4

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