Jacques Audiard, nel segno dell'espressionismo estremo
Jacques Audiard (30 Aprile 1952) è senza dubbio uno dei migliori autori contemporanei; i suoi film, nel segno di un espressionismo estremo, sono contraddistinti da un grande controllo di regia e da un intelligente adattamento del cinema di genere uniti ad un’attenta analisi dei personaggi, sempre intensi ed emozionanti.
Figlio dello sceneggiatore Michel Audiard, Jacques dopo aver conseguito gli studi in lettere decide di intraprendere la strada del cinema studiando montaggio e scrive sceneggiature. Esordisce alla regia nel 1994 con un noir personalissimo, Regarde les hommes tomber. Qui il regista francese già mette in evidenza la sua predilezione per la tematica della solitudine, dando maggior importanza ai personaggi e alla loro impossibilità di trovare un equilibrio tra una giovinezza allo sbando e una vecchiaia dolorosa, a scapito della trama intricata che pure è ben costruita. Nel 2001 Audiard presenta Sulle mie labbra, un thriller dal sapore hitchckiano immerso in un’atmosfera tipicamente francese, rivisitando il genere noir ribaltando il concetto di handicap attraverso la storia della protagonista Carla, la quale soffre di un deficit uditivo e amplificando la sua fisicità e quella dell’uomo di cui si innamora, Paul, appena uscito di prigione.
Tutti i battiti del mio cuore del 2005 è la prova che Audiard è un attento e fine sceneggiatore, degno figlio di suo padre. Tema predominante del film è l’incomunicabilità e sia dal punto di vista formale che stilistico il bravissimo regista è attento a non rendere il film didascalico, lo spettatore capisce da solo cosa avviene sullo schermo. Anche in questa pellicola Audiard presenta personaggi che hanno a che fare con affari loschi come il protagonista Thomas che però vorrebbe diventare pianista, proprio la musica sembra essere uno dei modi più indolori per comunicare con gli altri.
Il profeta, film del 2009, segna una svolta soprattutto in termini di maturità per il talentuoso regista che, come Garrone in Gomorra, inserisce in un romanzo di formazione, attraverso il sapiente controllo registico, tutte le istanze psicologiche, culturali, morali che influenzano il nostro percorso individuale dentro e contro la società di cui facciamo parte. Audiard racconta la vita carceraria (non violenta ma inerme) come probabilmente mai era stato fatto prima, fondendo realismo (il regista ha svolto ben 4 anni di studio sulle carceri) e surrealismo che consentono ad Audiard di conferire una “dignità criminale” al suo protagonista, il diciannovenne maghrebino Malik (bravissimo l’attore Tahar Rahim la cui recitazione ricorda quella di Al Pacino), alla ricerca di una propria identità violenta. Ricerca che è fisica e mentale insieme. Malik è il solo soggetto ad essere illuminato mentre il resto che lo circonda è oscurato, egli è solo contro tutti, lotta contro il tempo, assimila i codici criminali; la prigione per Malik è una palestra, una scuola di vita.
La prigione è anche fuori, la prigione è la società nella quale il protagonista è sempre più solo. Audiard, muovendosi tra parentesi di misticismo, simboliste e documentaristiche, rifiutando teoremi sociologici e furberie narrative, fornisce allo spettatore una sorta di quadro clinico dell’ intelligente seppur analfabeta Malik che elude la propria natura, circoscrivendo la sua vita in due mondi diversi, quello còrso e quello arabo, per poter raggiungere un potere che coincide con la presa di libertà, che altrove non sarebbe nemmeno pensabile.
Il profeta si è aggiudicato meritatamente il Premio al Festival di Cannes, ed è stato candidato all'Oscar come miglior film straniero.
Nel 2012 Audiard racconta in Un sapore di ruggine e di ossa, una storia d’amore, o meglio di corpi umiliati, mutilati e straziati dei due protagonisti, il buttafuori Alì, che per sopravvivere e prendersi cura di suo figlio, diventa pugile in incontri clandestini e Stephanie, dolce e fragile istruttrice acquatica di orche marine. Cosa hanno in comune Alì e Stephanie? La mancanza di una parte di sé: all’uomo dell’anima, alla donna del corpo. Alì, ospite della sorella in Costa Azzurra, conosce a malapena suo figlio, parla poco, si mimetizza con l’ambiente sordido in cui vive, Stephanie perde l’uso delle gambe ed è costretta a scendere dal piedistallo sul quale era salita per iniziare, con fatica, un percorso di rinascita che coinvolge l’uomo.
Audiard non ha paura di risultare manicheo e insiste sulle antitesi di potenza/impotenza, bellezza/squallore, forza/fragilità ma non è mai scontato. Corpo e anima diventano una sola cosa, il regista riesce mirabilmente a rendere spirituale il materiale, tramuta la tenerezza in coraggio narrando ancora una volta di una storia alla deriva, dove l’impeccabile direzione degli attori (fantastici Marion Cotillard e Matthias Schoenaerts) e l’eleganza della regia scongiurano il rischio di cadere in un melodramma enfatico ed estetizzante lasciando invece spazio alla dignità e alla sensualità.
Privo di qualsiasi implicazione retorica, Un sapore di ruggine e di ossa sembra sottintendere come “le cause perse”, i ribelli, i “senza speranza” abbiano un potere attrattivo sulle cosiddette persone “normali” come dimostra Stephanie che attecchisce all’insensibilità e alla forza del ribelle Alì unendosi a lui in un connubio che non prevede compassione.
Pathos, drammaturgia urlata, espressionismo, potenza, audacia, antieroismo; questo è il cinema di uno dei registi più interessanti e talentuosi del momento ma poco prolifico (fattore che non rappresenta certamente una nota di demerito).
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