Ritratto di Mario Blaconà
Autore Mario Blaconà :: 16 Ottobre 2018

Tratto dall'omonima graphic novel, "Virus Tropical" porta al Milano Film Festival un tentativo di racconto parallelo sugli ambienti sudamericani, attraverso gli occhi di una ragazza

Virus Tropical, presentato al Milano Film Festival

Il riferimento da cui prende spunto Virus Tropical, film d'animazione colombiano tratto dall'omonima graphic novel di Paola Gaviria, è evidentamente Persepolis, opera ormai cult sulla formazione di una donna iraniana, che ha ispirato una generazione di fumettisti e registi. Anche in questo caso al centro dell'arco drammaturgico del film troviamo il racconto della vita di una ragazza , ma con un'ambientazione agli antipodi, precisamente tra l'Equador e la Colombia. L'intento del regista Santiago Caicedo è quello di immergere gli spettatori nell'atmosfera, spesso poco raccontata, delle società sud americane contemporane, dipinte in Europa e in America del Nord solo attraverso i luoghi comuni del traffico di droga e del forte classismo.

Da questo punto di vista l'operazione risulta assolutamente riuscita: la scrittura riesce a plasmarsi attorno alla protagonista Paola rendendola sapientemente un canale per trasmettere una visione più completa dell'Equador e della Colombia degli ultimi venticinque anni, mostrando paesi molto più inclassificabili attraverso dogmi descrittivi o narrativi di quanto non si veda attraverso la serie tv di turno sul narcotraffico. Certo, la storia non risparmia neanche i lati più oscuri di una società comunque pericolosa, ma anche nel fare questo identifica le singole nazioni e non generalizza tutta l'America del Sud come un unico ammasso di povertà e malaffare (come spesso si tende a fare anche con il continente africano, per intenderci).

Al netto di questi meriti descrittivi però il film manca di presa narrativa e di uno stile riconoscibile, considerando anche che il tipo di disegni messi in scena, volutamente stilizzati e infantili, risulta congeniale alla storia solo durante la prima parte del lungometraggio, raffigurando l'infanzia di Paola e conformandosi alla sua età. L'impressione che si ha è di essere di fronte a un report, senza una riflessione peculiare dietro, se non quella di ricalcare altre narrazioni precedenti. Mischiando il geolocalismo e il racconto di formazione Virus Tropical si ferma entro un limite netto e non riesce a superarlo, e neppure si impegna nel farlo. La scena iniziale del concepimento di Paola e le parentesi oniriche di alcuni momenti di passaggio cruciali nella sua crescita vengono affrontati come copie carbone di una drammaturgia standardizzata, che non riesce ad aggiungere nulla al discorso di genere. Tolto quindi il valore sociologico, che non può esaurire il livello qualitativo dell'opera, non siamo sicuramente di fronte a un lavoro cinematografico che lavora sulla narrazione e sull'immagine animata, ma che si rifugia invece dietro a una parentesi, troppo spesso tracciata, del già visto e raccontato, carenza che stupisce, soprattutto in un cinema come quello sudamericano, sempre foriero di novità e sperimentazioni [leggi anche https://farefilm.it/produzioni-e-set/cinema-novo-di-eryk-rocha-il-documentario-sul-cinema-sudamericano-nelle-sale-il-5-marzo-10093]

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