Presentare immagini, suoni e oggetti in contesti e associazioni anomale. Parliamo di Joseph Cornell ed Harry Smith: due artisti troppo spesso dimenticati del secolo scorso
Presentare immagini, suoni e oggetti in contesti e associazioni anomale. Non parliamo di John Cassavetes, Kenneth Anger, Andy Warhol, Maya Deren o Marcel Duchamp, ma di Joseph Cornell ed Harry Smith. Due artisti troppo spesso dimenticati del secolo scorso. Autori di pellicole al confine tra cinema e arti visive, hanno sperimentato nel pieno della loro attività tra gli anni '30 e '60, consapevoli di essere i responsabili della nuova messa in discussione sul cinema d'avanguardia. Dopo futuristi, dadaisti, espressionisti tedeschi, riprendono i caratteri del surrealismo e dell'astrattismo montando opere che danno sfogo alle associazioni libere, all'animazione di materia esanime, arrivando a un cinema definito “puro”, indipendente da storie narrate e oggetti riconoscibili. L'illogico frutto dell'inconscio.
Joseph Cornell (1903-1972) con le voci spezzate, le scene interrotte, le immagini che ricordano qualcosa di lontano, vagamente familiare. Le clip dei film vecchi montate assieme alle riprese fatte da lui, a seconda delle sue emozioni, hanno portato i critici a definirlo il padre del found footage. Se oggi esiste una tecnica chiamata mash-up è grazie a Cornell e ai suoi esperimenti, iniziati nel 1936 con il suo primo cortometraggio Rose Hobart.
Una visione quasi disturbante quella proposta da Harry Smith (1923-1991). Pregne di simbolismi le sue opere toccano più volte l'assurdo, portando lo spettatore a uno spaesamento visivo. Difficile diventa così interpretare e capire i legami degli oggetti che si ripetono come nel lungometraggio Heaven and Earth Magic del 1962. Completato a fasi alterne negli anni '50 è stato realizzato con animazione di figure ritagliate, in cui è possibile notare i temi ricorrenti come l'alchimia, l'occultismo e la ricca riscoperta delle sottoculture delle epoche precedenti. Una caratteristica quest'ultima presente anche in quello che viene definito il suo capolavoro The Anthology of American Folk Music (1952).
A differenza di Cornell, il cui ricordo è mantenuto da qualche vecchio libro che a volte viene rispolverato, Smith non gode di nessuna fama, se non per qualche sporadica eccezione come nel 1996 in cui venne pubblicato il libro American Magus: Harry Smith, edito da Paola Igliori, New York, New York: Inanout Press. I motivi di questo orizzonte perduto non sono ancora ben chiari, ciò che però è ben visibile è il complesso di opere che Smith ci ha lasciato, opere che a dire il vero, se vogliamo precisare, sono rimaste in maggior parte incompiute. Un estro di cui l'artista rispose così: “I miei film vanno visti tutti insieme, o per nulla affatto”.
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