Il mostro sacro del cinema horror nostrano è stato invitato al festival del film di Locarno. À l'affiche "Gli incubi di Dario Argento", nove bombe horror/punk.
Il mostro sacro del cinema horror nostrano, Dario Argento, è stato invitato alla Sessantasettesima edizione del festival del film di Locarno, in occasione della Retrospettiva Titanus. Una bella opportunità per ripercorrere la vita e la carriera del Maestro attraverso il suo primo film L' uccello dalle piume di cristallo (1970) e una serie di brevissimi e allucinatissimi Incubi di Dario Argento, suite di nove cortometraggi di due tre minuti l'uno, realizzati per il programma Rai «Giallo» nel 1987.
Uno di questi cortometraggi, la cui scena clou è l'autosbudellamento della protagonista, fu censurato dalla stessa Rai e miracolosamente sopravvissuto grazie ad un estimatore di Dario Argento che ne filmò una copia pirata prima che l'originale fosse fatto sparire.
L'intento di Dario Argento? Quello di «dare degli sberloni agli spettatori» inoculando nelle case degli italiani «dei piccoli film feroci, politicamente scorretti, al limite del razzismo»: sullo schermo assistiamo a stupri, massacri perpetrati da colf di colore o da non meglio precisati 'stranieri', epidemie di vermi sottocutanei e giochi infantili che si avvalgono di braccia e teste mozzate. Insomma un profluvio di schizzi di sangue e orrori indicibili, il tutto confezionato in maniera volontariamente amatoriale, low-fi, kitsch, scampoli di veri B-movies accompagnati da un sound track che attinge ai suoi film precedenti piuttosto che a Michael Jackson o ai Sex Pistols.
In sala, tra risate e mancati conati di vomito, i film sono stati accolti in maniera giubilatoria da un pubblico giovane che, secondo Argento, è in grado di apprezzare la sua «sincerità».
A ottobre verrà edito il libro autobiografico del regista in cui racconta la propria vita senza fatti inediti perché ormai della mia vita si sa già tutto, non c'è piu nulla da scoprire visto che è già stato scritto molto». Ciò che, invece, rimarrà per sempre un mistero è la sua doppia identità, «quel Dario Argento che non conosco bene e che ogni tanto apre la sua parte oscura e ci guarda dentro».
A chi gli domanda quale sia la ricetta per incutere paura, il regista risponde che non lo sa, sarebbe troppo facile: «è una predisposizione dell'animo, io racconto le profondità della mia parte oscura e, fortunatamente, ho il privilegio di avere un buon dialogo con essa. Quelle che racconto sono storie terribili che non turbano la mia coscienza. La mia paura è sempre stata quella di avere un vaso di Pandora con dentro tutte queste mostruosità e che, un giorno si sarebbe rotto davanti ai miei occhi. Ma questo non è successo, il vaso è infrangibile».
Il regista rievoca la propria giovinezza e ci racconta di quando, bambino, si ammalò di una febbre reumatica che lo costrinse a letto per diverso tempo. In quella circostanza fece l'incontro con le opere di Poe e di Lovecraft: un mondo di figure bizzarre, strane, cominciò a popolare il suo immaginario per poi prendere vita, più tardi, nei suoi film, in Profondo Rosso (1975), poi in Suspiria (1977) e in Inferno (1980).
Argento non manca poi di omaggaire il padre della psicanalisi, Sigmund Freud, che lo ha aiutato a «dialogare» coi propri sogni e senza il quale «non ci sarebbe nulla; non ci sarebbe l'arte, il cinema, la musica; senza Freud vivremo ancora come dei selvaggi medievali».
Ed infine, a questa lunga schiera di padre putativi, s'aggiunge l'«architetto» Michelangelo Antonioni da cui ha ereditato «l'importanza della casa», di volta in volta «casa filosofale» e «casa alchemica».
Per quanto riguarda i progetti futuri, il regista resta vago, ci dice che deve «interrogare» la sua parte oscura ma apre qualche spiraglio quando ci rivela di riservare interesse per l'occultismo e «la ferocia in famiglia» perché «tutto nasce lì, quando si è fragili e bambini».
Ciò che, malauguratamente, è certo è che i suoi prossimi film, alcuni episodi per una serie televisiva, non verranno realizzati in Italia ma negli Stati Uniti, perché là « c'è più libertà di raccontare, più soldi, più apertura a tematiche e generi diversi mentre in Italia è sempre la commedia che comanda ».
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