Quando, nel 2001, Lantana uscì sugli schermi di tutto il mondo, ricevendo ottime accoglienze di pubblico e critica, furono in tanti a chiedersi se l’idea di “aussie way of life" fosse effettivamente vicina alla realtà
Quando, nel 2001, Lantana – messe di premi all’Australian Film Institute Award – uscì sugli schermi di tutto il mondo, ricevendo ottime accoglienze di pubblico e critica, furono in tanti a chiedersi se l’idea di “aussie way of life” che avevano coltivato fino a quel momento fosse effettivamente vicina alla realtà.
Nessuna spiaggia assolata animata da surfisti sorridenti, e nemmeno le vette, i deserti, i vulcani, i mari, le foreste e le spiagge che connotano l’Oceania come una sorta di paradiso mitologico.
La periferia di Sydney dell’ispettore di polizia Leon suggerì, semmai, uno strano incrocio di inquietudini a metà strada tra David Lynch e Altman, con “You belong to the city” dello “yankee” Glenn Frey quale colonna sonora, location ideale per sintetizzare le angosce di una borghesia di inizio millennio premurosa di occultare, tra le piante di lantana (da qui il titolo) in fondo ad un burrone, i propri sensi di colpa e la propria inadeguatezza a gestire relazioni, trame affettive e trasversalità.
Il film diretto da Ray Lawrence – regista di origine inglese naturalizzato australiano – rese chiaro agli addetti ai lavori e agli spettatori che la settima arte, a Sydney e dintorni, sperimentava in realtà da tempo un travaglio identitario degno di attenzione e soprattutto desideroso di proporre all’esterno una definizione che non fosse coincidente con la connotazione esogena bensì con un tentativo di reinterpretazione di luoghi comuni che, fino a quel momento, non erano stati scalfiti.
Non solo dal cinema, ma anche dalla musica: “Down Under” dei Men at Work, stratosferico hit degli anni ottanta, era diventato un vero e proprio inno generazionale identificativo, e agli australiani era piaciuto, in fondo, essere descritti quali festaioli, dediti più alla bottiglia che alle buone maniere e alle letture di pregio, di certo fieri di provenire dalla “terra dell’abbondanza”.
I primi segnali c’erano stati a partire da alcuni esperimenti filmici di grande impatto e successo – quale Once they were warriors del 1994 – che, sebbene con qualche caratterizzazione di troppo – aveva messo a nudo la crudeltà di una società plasmata dalla cultura Maori e incapace di trovare un compromesso con l’altra tradizione, quella anglosassone, che ben poco aveva da spartire con la nitidezza della Terra della lunga nuvola bianca.
A Wellington come a Sydney, periferie feroci e fosche, brutalità e iperrealismo.
Negli ultimi decenni, quella che fino agli anni settanta era considerata un’industria moribonda e dai contenuti risibili, è diventata, complice l’apporto di alcuni attori esponenti del mainstream, una della realtà cinematografiche più fulgide dell’attuale panorama internazionale, contrassegnata da registi e interpreti che viaggiano, fedeli alla loro tradizione consolidata, da una parte all’altra del globo: il recente Oscar assegnato a Cate Blanchett parla di una generazione di quarantenni che, tra un’incursione negli States e un’altra nel Regno Unito, ha saputo evolversi costantemente, prendendo le distanze dalle commedie popolari stile Crocodile Dundee che avevano rallentato il percorso di affermazione di una visione registica, attoriale e stilistica che solo con il genere “quirky” (bizzarro) degli anni novanta (Priscilla, regina del deserto per citare solo un titolo) iniziò a godere di rispetto e visibilità.
Oggi il cinema oceanico gode di una buona autorevolezza, soprattutto quello australiano, grazie all’azione dell’Australian Film Commission che, pur non disdegnando apporti a stelle e strisce, garantisce notevoli sgravi fiscali concorrendo virtuosamente con una produzione televisiva straordinariamente florida e accattivante.
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