Ritratto di Annalina Grasso
Autore Annalina Grasso :: 27 Maggio 2014
Fino all'ultima pellicola

Peter Bogdanovich, il Truffaut americano

Peter Bogdanovich

“L’età dell’oro... bei tempi,recitava solo chi aveva talento”; è nostalgico il critico cinematografico e regista americano Peter Bogdanovich (Kingston, 30 luglio 1939), da molti considerato il Truffaut americano nel raccontare retroscena e simpatici aneddoti, divi e dive presenti nel suo libro Chi c’è in quel film? del 2008. E la cosa non meraviglia se pensiamo alla concezione filosofica del regista che vuole i più grandi film della storia del cinema essere già stati prodotti mentre ai registi contemporanei non rimane altro che percorrere la strada della poetica della nostalgia. Teoria certamente opinabile, perché il cinema è una forma d’arte inesauribile e perché, verrebbe spontaneo pensare, dietro questa affermazione si nasconde una mancanza di talento e voglia di sperimentare oppure una certa consapevolezza dei propri limiti in qualità di autore; è facile realizzare film già visti, affidandosi magari a pessimi remake di capolavori per far colpo sul pubblico.

Ma non è il caso di Peter Bogdanovich, che da critico cinematografico di razza ha instaurato un vero e proprio dialogo con il cinema hollywoodiano degli anni Trenta e Quaranta che viveva un periodo d’oro.

Peter Bogdanovich nasce da una famiglia ebrea e sin da piccolo respira cultura europea grazie al padre pittore. Si diverte ad imitare gli attori e inizia a frequentare i corsi di recitazione al Theater Studio di New York, per poi esordire come regista teatrale, con The big knife di Odets. C’è posto anche per la critica cinematografica tra  gli interessi di Bogdanovich, scrivendo recensioni per alcuni giornali e per riviste specializzate; cura anche delle rassegne monografiche su Orson Welles e Alfred Hitchcock per il Museo d’Arte Moderna di New York.

Nel 1964 il giovane regista si  trasferisce a Hollywood, dove inizia a collaborare con la factory di Roger Corman, svolgendo ruoli da sceneggiatore, attore, aiuto regista. Quattro anni dopo esordisce come regista con una pellicola di stampo classico, Targets (Bersagli) un omaggio all’attore Boris Karloff, basato sulla storia di un giovane serial killer, che si  incontra con una star dei film horror (Karloff per l’appunto). Bogdanovich crea un collegamento tra passato e futuro mostrando come i mostri fantastici oggi non esistano più, i mostri reali con i quali potremmo avere a che fare ogni giorno ne hanno preso il posto.

Nel 1971 il brillante regista sforna il suo capolavoro, che mette d’accordo critica e pubblico: The last picture show (L'ultimo spettacolo), opera in bianco e nero che vanta un cast di primissimo livello: Timothy Bottoms, Jeff Bridges e Cybill Shepherd, un dramma sulla morte che si consuma ad Anarene, Texas (dove non avviene nulla), improntato sui luoghi comuni del cinema di genere ed in particolare quello di Ford con i suoi saloon e cowboys solitari. Il cinema del passato che non può tornare ma che può essere riletto, i cui punti fermi sono ribaltabili. Questa è la grande operazione filosofico-artistica e metacinematografica che compie Bogdanovich, distruggendo attraverso la critica tutti i significati precedenti. La pellicola è interessante anche dal punto di vista linguistico, in particolare quando affronta esplicitamente il tema del sesso che la Hollywood degli anni d’oro trattava con estremo pudore e timore: il regista mette intelligentemente in risalto come nemmeno la presunta e strombazzata emancipazione sessuale possa dare una dimensione non mediocre ai goffi protagonisti della storia, disagiati e per nulla trasgressivi.

L’ultimo spettacolo rappresenta la fine di una generazione, del sogno americano e del suo cinema che Bogdanovich riporta nella piatta e infelice quotidianità dei suoi protagonisti. Non è un caso che l’ex critico ambienti il suo film nel 1951, l’anno  del “Fair Deal” del presidente Truman caratterizzato dalla corsa agli armamenti, dal consumismo dilagante, dall’avvento della tv che sostituisce il vecchio cinematografo, una delle pochissime attrazioni di Anarene.

Dopo quest’amara riflessione sul cinema, Bogdanovich si ispira alla deliziosa commedia di Hawks, Susanna (1938) per dare vita al brioso road movie Ma papà ti manda sola? (1972) dimostrando ancora una volta il suo amore e attaccamento alle pellicole degli anni ’30. L’anno successivo è ancora commedia di raro garbo per il regista che dirige Paper moon in cui sono protagonisti un venditore ambulante di Bibbie e una  tenera e smaliziata orfanella. Daisy Miller (1974) e Finalmente arrivò l’amore (1975) non sono film riusciti del regista, che però si rifà nel 1976 con Vecchia America, un omaggio ironico ai pionieri del cinema. Saint Jack (1979), E tutti risero (1981), Dietro la maschera (1985), Texasville (1991), Rumori fuori scena (1992)  e il documentario Directed by (2006) sono solo alcuni degli altri film diretti da Bogdanovic nei quali non mancano personaggi della quotidianità, in cui il pubblico si immedesima, di quell’America povera ma che ci fa simpatia e che iscrivono Bogdanovich, come lo è stato per Truffaut con il quale ha condiviso anche l’esperienza di critico, alla Nouvelle Vague.

Garbo, raffinatezza, sentimenti (non sentimentalismi), umorismo intelligente, lampi geniali di slapstick; qualità che molto spesso mancano al cinema contemporaneo.

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