Scena 1: Giovanni Aloi, Davide Labanti e il cortometraggio sul lavoro
Biennio 2013-2014. Non proprio un momento felice per l'Italia. Se l'arte è espressione dei bisogni del popolo, sicuramente in questo momento gli Italiani hanno fame di lavoro. I giovani artisti sono lì a raccontarlo, a rappresentare al meglio e con suggestioni veritiere, un periodo difficile; per anestetizzarne gli effetti depressivi e rivisitarne i passaggi in cerca di un senso.
Ma quali artisti sanno essere così vicini alla voce popolare, a quali di loro è concessa una tale rapidità di produzione da rappresentare quasi in contemporanea i pensieri della gente? A niente meno che ai registi di cortometraggi: coloro che stanno crescendo, coloro che ci stanno lavorando, o coloro che scelgono spontaneamente questa forma per raccontare istantaneamente, e fotografare una realtà che negli iter produttivi infiniti dei lungometraggi non si potrebbe mai riassumere così prontamente.
Questo è il biennio dei lavoratori, è il biennio delle storie normali che diventano cinema, è la voce della gente che urla la proprio protesta. Ci sono operai, disoccupati, giovani con un mutuo da pagare. Ci sono famiglie spaccate e altre che si stanno rompendo. Ma soprattutto, ci sono quelli che tentano di reagire.
Due i prescelti per farsi portavoce di questa squadra di lotta in questa pagina che parla di cinema. Giovanni Aloi, che racconta di Fiore: pochi mesi fa aveva sfiorato la cinquina di Cannes il suo cortometraggio, poi escluso per una precedente selezione oltreoceano. Già, il padre di tutti i Festival non poteva che pretendere l'anteprima. E così questo racconto ambientato in Liguria, con l'ILVA che si staglia alle spalle e fagocita le vite, si è fatto da parte, in quella occasione. Ma di certo la storia, rigorosamente semplice, benché satura di realtà, quella non è proprio possibile metterla a lato; non ci si dimentica di A passo d'uomo.
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Fiore è un padre che farebbe qualunque cosa per non fare percepire al figlio le rinunce a cui lui è costretto; tuttavia è in gioco più di un paio di scarpe tanto agognate. C'è una densa allegoria che parla di dignità, che per quanto si lotti per mantenerla è spesso dipendente dal contesto, da ciò che la vita ti offre, dalle sfide che si possono affrontare e superare. E se l'immagine può condurci nelle storie, l'obiettivo ravvicinato di Aloi lo fa certamente, nella profondità delle emozioni così ben recitate da Alessandro Castiglioni.
Anche Davide Labanti ha cercato un protagonista in lotta per la dignità di lavoratore; anzi, più di uno, perché è un po' come se ne L'impresa, fossero tre le vite intrecciate alla sofferenza e alla gravità del momento - sdrammatizzato forse, o edulcorato da gentili sorrisi di facciata -. Invece la verità, quella appartiene al silenzio. Dopo la vittoria del RIFF 2014, L'impresa è stata di qua e di là nel mondo a presentare quell'Italia fatta di gente che si stringe l'una all'altra, di rabbia giovanile per occasioni mancate e di comprensione per le stesse ragioni. Giorgio Colangeli, Franco Trevisi ed Edoardo Lomazzi sono i volti del cortometraggio, quella gente comune di cui sopra che qui è tanto precisamente rappresentata.
Forse per ora non ci saranno tanti soldi, neppure troppo lavoro, ma c'è una traboccante sensibilità artistica che è sempre pronta a fissare con contorni netti e colori delicati la verità di una società da cui gli spunti emotivi non mancano.
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