Ritratto di Chiara Tartagni
Autore Chiara Tartagni :: 2 Giugno 2014

Federico Fellini pittore: il suo ritratto di Giacomo Casanova attinge da numerose fonti pittoriche, appartenenti a diversi bacini estetici. Ne emerge un'indagine sociale sull'italiano medio

Il Casanova di Federico Fellini

Il Casanova di Federico Fellini (1976) nasce sotto una cattiva stella: numerosi cambi di produzione, l’incertezza nella scelta del giusto protagonista e il famoso furto delle bobine che coinvolse anche il pasoliniano Salò contribuirono per ben due anni ad ostacolare il regista e a provocarne quella frustrazione che gli offrirà la chiave di lettura perfetta per il film. È lo stesso Fellini a dichiarare: «È stato questo rifiuto totale, questa totale mancanza della sia pur minima congenialità all'impresa, è stata questa nausea, questa ripulsa a suggerirci il modo di fare il film, il suo unico possibile punto di vista. Almeno per me. Un film sul vuoto: non c'è ideologia, sensazione, sentimento, non ci sono emozioni nemmeno di carattere estetico, non c'è soprattutto il Settecento e pertanto nessuna angolazione storica, di critica storica, sociologica. Un'assenza totale di tutto, un film mortuario, disemozionato, ci sono soltanto delle forme che si configurano in volumi, prospettive scandite in un'iterazione raggelante, ipnotica»[1]. La citata assenza del principale protagonista, ovvero il Settecento, non è casuale: nel titolo del film possiamo già ritrovare la personalissima visione felliniana della figura di Giacomo Casanova (1725-1798), personaggio camaleontico, avventuriero, romanziere, studioso, occultista, tuttologo, che però agli occhi di Fellini è l’incarnazione del «fascista. Una specie di anticipazione di quella tipologia rozza ed elementare soddisfatta di sé che si configura nel fascismo, cioè quell'esistere collettivo, non individuale, quell'ubriacarsi nell'azione pompieristica, scenografica, quel pensare secondo un sistema coatto di slogan generici, senza senso, l'emozione avvilita ad una temperatura fisiologica, febbricitante, insomma l'adolescenza nella sua parte più scadente, cioè la prepotenza, la salute, l'idealismo fanatico e ipocrita. Il fascismo è un'adolescenza protratta al di là di ogni attualità»[2]. Una dichiarazione che già smentisce significativamente la mancanza di «angolazione storica, di critica storica, sociologica» precedentemente sottolineata.

Coerentemente, l’uso delle fonti pittoriche da parte di Fellini e Danilo Donati, scenografo e costumista, non può che condurre a risultati opposti rispetto al quasi contemporaneo Barry Lyndon di Kubrick: non è certamente da dimenticare che lo stesso Fellini si considera pittore mancato e per tutta la sua vita fu preda di un’irresistibile istinto allo schizzo istantaneo («È una sorta di riflesso incondizionato, di gesto automatico, una mania che mi porto dietro da sempre, e con un po’ di imbarazzo confesso che c’è stato un momento nel quale ho pensato che la mia vita sarebbe stata quella del pittore»[3]). L’orizzonte estetico si rivela dunque freneticamente soggettivo, con precisi e vastissimi riferimenti che spaziano dalla caricatura barocca (si veda la citazione dell’Innocenzo XI spietatamente ritratto da Gian Lorenzo Bernini nella figura del rachitico gobbo-insetto Dubois) alla scenografia teatrale classicista di Aleksandr Benois, dalla più naturale influenza di Giacomo Ceruti, Francisco Goya e Pietro Longhi, che ritrasse la Venezia del XVIII secolo in tutta la sua languida decadenza, ai melanconici, esangui Preraffaelliti (che spesso compiono imprevedibili scelte cromatiche di violenta intensità), fino ad arrivare alle stampe londinesi di Gustave Doré e alla diretta collaborazione di Fellini con il surrealista Roland Topor, che realizza le illustrazioni proiettate all’interno della “Grande Mouna”. Risulta particolarmente interessante il trattamento estetico riservato alla Roma papale: presso la dimora romana del principe Del Brando, una luce rossastra e fumosa invade il salone in cui spiccano una quadreria allestita com’era uso nel Rinascimento e busti scolpiti chiaramente accostabili al già citato Bernini, così come rosso, nero e giallo (colori associabili al barocco e al Seicento italiano) dominano abiti e acconciature, proiettando intenzionalmente l'identità della società italiana del XVIII secolo indietro nel tempo ed erigendola a simbolo di ristrettezza culturale e decadenza morale[4]. Ed è proprio il peso figurativo e morale di quella Roma putrescente, o meglio di Madre Chiesa, persa nei suoi seicenteschi «trionfi di frutta caravaggeschi»[5], a provocare il definitivo tramonto del protagonista, che da novello Pigmalione troverà il vero amore della sua vita in una bambola meccanica. 

«Questo fantasma ci riguarda per il suo modo di vivere», sostiene Fellini, «è un esistenzialismo di superficie, totale, forme diverse che si inseguono una dopo l’altra […]. Non c’è racconto, ma una serie di visioni della realtà che si ricompone in tanti quadri senza un senso, perché il protagonista è incapace di darglielo […]. Non faccio un film sul Settecento, mi interessa proporre questo archetipo mitologico italiano, così vitale, presente e condizionante per gran parte di noi»[6]. Secondo Fellini questa incoerente serie di quadri, questo vuoto narrativo, «ci riguarda», ci si impone, come ci riguarda l’immagine di questo “italiano” sempre pronto a porsi sulla scena e che resta costantemente al di fuori dei mutamenti storici che davvero contano. Il mito amatorio di Casanova, la sua maschera che si infrange di fronte alla figura materna, la dipendenza morale da Madre Chiesa (che in Italia conservò una propria influenza nel tempo in cui altrove prosperava l’anticlericalismo illuminista) che si tramuta in meschina ribellione: costituiscono un modello di quel carattere italiano che Fellini indaga e teme. Giacomo Casanova è dunque l’«italiano» per eccellenza, il «fascista», l’eterno figlio adolescente incapace di relazionarsi con la femminilità, che resta congelato in «tanti quadri senza un senso»: una sorta di pre-cinema all’interno del quale il criterio figurativo si dipana dal Seicento al Settecento, passando per l’Ottocento più consunto e le rivelazioni surrealiste dell’inconscio, fino a giungere, con qualche tocco déco, a quella severa purezza formale che in ogni epoca ha costituito un forte polo d’attrazione e che avrebbe in seguito dominato le forme del Razionalismo italiano. Ogni anacronismo figurativo è dunque ben motivato da concrete relazioni con la società contemporanea e nulla sembra stonare agli occhi e alla mente dello spettatore, che può riconoscere in ciò che vede lo spessore onirico, e dunque ancora più perturbante, di una favola profondamente morale. 

 

[1] Intervista di Aldo Tassone a Federico Fellini in L. Betti – G. Angelucci, Casanova rendez-vous con Federico Fellini, Milano, Bompiani, 1975, p. 139
[2] L. Betti – G. Angelucci, op. cit., p. 141
[3] F. Fellini, Fare un film, Torino, Einaudi, 1993, p. 69
[4] Dalla registrazione di una conversazione del 25 ottobre 1975 fra Danilo Donati, creatore dei costumi, e Mario Farani, direttore della sartoria: «Fellini vuol far sentire che Roma è molto più indietro. La manica è larga in fondo: allora non ho proprio il Settecento, ma una manica del Seicento» (in P. M. De Santi – R. Monti, Saggi e documenti sopra “Il Casanova” di Federico Fellini, Pisa, Università Istituto di storia dell’arte, 1978, p. 119)
[5] Appunti sul tavolo di Donati da P. M. De Santi – R. Monti, op. cit., p. 132
[6] L. Betti – G. Angelucci, Il Casanova di Federico Fellini, p. 22-23

 

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