Ritratto di Chiara Tartagni
Autore Chiara Tartagni :: 28 Aprile 2014

Il rapporto fra cinema e pittura è fecondo e ormai di lunga data. E se non fosse solo un fatto di citazioni? Un esempio recente e molto sottovalutato è Vatel di Roland Joffé

Vatel di Roland Joffé

Con maggiore o con minore sapienza, cinema e pittura si incontrano spesso e il Seicento è certamente uno dei secoli più rappresentati attraverso il mezzo cinematografico. È dunque inevitabile che il regista e le maestranze coinvolte nella produzione di un film entrino in contatto con la documentazione dell’epoca, in cui è possibile annoverare quelle fonti pittoriche da cui si attingono fogge di costumi, acconciature, ornamenti, così come atmosfere, rapporti fra le classi sociali, livello di penetrazione psicologica. L’arte cinematografica risulta particolarmente affine alle istanze culturali ed estetiche di un’epoca complessa come il Seicento europeo, istanze dalle quali discende in buona parte la moderna concezione di società e che sarebbero giunte alla vera pienezza intellettuale nel XVIII secolo. Roland Joffé, cineasta inglese che già aveva affrontato uno dei tanti volti del Seicento in La lettera scarlatta (1997), traduzione cinematografica assai povera del folgorante romanzo di Nathaniel Hawthorne, si riscatta in buona parte con Vatel (2000): a dispetto del titolo, François Vatel (1631-1671), il celebre artista della cucina, il signore dei festeggiamenti, non è tanto il protagonista, quanto l’incarnazione dell’uomo barocco, nella sua indefessa, stoica ricerca del sublime e del perfetto, nonché il simbolo della viziosa indissolubilità di un (dis)ordine sociale. La corte di Luigi XIV di Francia è sede di costante ingiustizia: questo mondo dorato, popolato da divinità in vesti cangianti e vaporosi veli, si rivela la più opprimente delle gabbie, dove tutti, esseri umani compresi, sono in vendita, dove ogni donna è costretta a difendere la propria posizione orbitando intorno al Re Sole, con il proprio corpo come merce di scambio. L’umanità nella sua accezione più sporca e triviale (il re che defeca in pieno consiglio, i cortigiani che si accoppiano in pubblico, i ricatti e le meschinità) emerge con genuina, apprezzabile crudezza in questa profusione di sete e preziosismi, fino al punto di far percepire allo spettatore la concreta (ma altrettanto metaforica) mescolanza fra miasmi e profumi. Nelle infinite tavolate, nella deliziosa varietà di frutti della terra e nel succulento catalogo di pietanze che il regista offre alla nostra vista possiamo anche riconoscere l’emergere della natura morta come genere pittorico prettamente barocco: nella natura che lo circonda l’uomo vede infatti una manifestazione del divino e, in quanto tale, la considera degna di essere rappresentata in ogni sua declinazione. Non solo: l’occhio cinematografico si fa ideale strumento dell’esaltazione ultima della natura, di cui vede, inventa, fa scoprire i numerosi volti. È notevole che lo stile dei costumi si rifaccia non tanto alla reale moda dell’epoca, quanto piuttosto alla ritrattistica celebrativa, che proprio nel Seicento francese identifica con sempre maggiore frequenza il ritrattato con una divinità della mitologia greca. Eppure, proprio per questo, per la nostra consuetudine con tale estetica, il film ci appare più “vero”, più rispondente a quella rigidità gerarchica che dominava la società europea del Seicento; allo stesso tempo, l’approccio figurativo prescelto consente al regista di svelare con feroce ironia la dimensione fragile di questi esseri ultraterreni, sì, ma con i piedi ben piantati in terra. L’essenza barocca e il cinema concorrono dunque a svelare una verità, crudele sì, ma proprio per questo fatta di metallo nobile, a forgiare l’immagine incisiva di un sistema sociale la cui attualità non può sfuggire ad occhi avvertiti.

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