Molto affascinato dalla figura della famosa regina di Francia, il cinema le dedica ampio spazio fin dagli albori e approdo nel 2006 a "Marie Antoinette" di Sofia Coppola: un ritratto personalissimo che è anche ritratto dell'oggi.
Il cinema sembra molto affascinato dalla figura complessa di Maria Antonietta di Francia (1755 – 1793), che è stata oggetto di esplorazione fin dai primissimi tempi della storia cinematografica (pare che la prima apparizione risalga al 1903 in Marie-Antoinette di Lauren Heilbronn, ormai perduto). Nel 2006 è Sofia Coppola ad interessarsi alla celebre regina di Francia e al suo rapporto con Luigi XVI, interesse che la regista pone in netta connessione con la sua abituale attenzione per la dimensione giovanile: «erano fondamentalmente degli adolescenti con il compito di governare la Francia in un periodo assai incostante e da un luogo incredibilmente stravagante, la corte reale di Versailles. Questo è ciò che dapprima mi ha interessato: l’idea che questi ragazzini si trovassero in quella posizione e cercassero di scoprire cosa li aspettava, tentando di crescere in una situazione così estrema»[1]. La storica inglese Antonia Fraser ha reso giustizia a Maria Antonietta, santificata o demonizzata per anni, analizzandone scrupolosamente la personalità (con inevitabile simpatia, ma senza sfociare nella complicità): ingenua, poco istruita e orgogliosa, estremamente sensibile e altruista, insomma una donna comune, priva del nerbo e dell’educazione che ne avrebbero fatto una vera sovrana. Sofia Coppola sceglie proprio il bel saggio della Fraser come punto di partenza della sua analisi, raccontando una vicenda essenzialmente personale con un approccio estetico altrettanto personale: «tutto quello che abbiamo fatto è basato su ricerche riguardanti quell’epoca, ma il tutto è visto in chiave contemporanea. […] Non volevo realizzare un asettico film storico, con un freddo albo di inquadrature. […] Volevo che questo film permettesse al pubblico di capire cosa significasse vivere a Versailles in quell’epoca e perdersi in quel mondo»[2].
Marie Antoinette inizia con le note frizzanti e sensuali dei Gang of Four: sdraiata languida su di un sofà, Maria Antonietta assaggia una delle deliziose torte di cui è circondata per poi rivolgere allo spettatore uno sguardo malizioso e impudente, mentre una cameriera si prende cura delle sue calzature (firmate Mahnolo Blanik). Una scena concepita con approccio fotografico: la macchina fissa, la distanza dal soggetto, il campo totale fanno dell’inquadratura una verosimile istantanea, significativamente non offuscata dal tempo. Istantanea che trova origine nell’opera del francese Guy Bourdin (1928 – 1991), fotografo di moda che fu pupillo di Man Ray[3] e influenzato dall’opera di Balthus e René Magritte: il suo stile altamente provocatorio sconvolse il mondo della fotografia negli anni ’70, grazie a contrasti cromatici potentissimi che creavano fulgide sinfonie visive di vita, morte e bellezza. Ma soprattutto, l’opera di Bourdin presenta una spiccata dimensione narrativa e ravvisiamo nella prima immagine di Marie Antoinette una rivisitazione della campagna fotografica realizzata per lo stilista di calzature Charles Jourdan nel 1977. Da non dimenticare, inoltre, la concezione del corpo femminile (e in questo caso del corpo regale) che emerge dalle fotografie di Bourdin: una donna-bambola, un corpo-oggetto appena morto eppure ancora palpitante di energia erotica («come osserva Rosetta Brooks, “le immagini di Bourdin erano ‘piccole morti’, interruzioni del flusso di immagini del desiderio consumistico”»[4]). Concezione che accomuna età contemporanea e quella cultura del XVIII secolo che, ricordiamolo, aveva sì concesso più libertà alle donne di quanto fosse immaginabile fino ad allora, ma altrettanta libertà alla dissolutezza e all’elevazione della reputazione virile attraverso la donna. Nella pittura rococò, soprattutto quella di François Boucher (1688 – 1737), vediamo come il corpo femminile assuma il ruolo di «sogno maschile del tempo, nel quale le dame della corte di Luigi XV sembravano aver provato piacere nel rispecchiarsi»[5]. La regina di Francia ci viene dunque presentata come corpo che è sia femminile che regale, dunque esposto alla mercé della corte (splendida la scena, più volte reiterata in quanto imprescindibile rito quotidiano, della levée del mattino), che poteva permettersi di speculare sulla vita sessuale dei sovrani, e al contempo irraggiungibile, intoccabile, più vicino alla morte che alla vita. Proprio come nella fotografia di Bourdin, in cui i colori hanno «il ruolo di agenti di informazione, ingredienti capaci di comunicare il senso dell’immagine e della storia»[6].
Una particolare affinità, dunque, fra la cultura del Settecento e questo filtro estetico-fotografico proveniente dagli anni ’70 del Novecento, che trova la sua conferma nella colonna sonora: Adam & the Ants, Bow Wow Wow e Siouxsie & The Banshees, gruppi musicali britannici new romantic e post-punk, contribuiscono ad un’atmosfera di freschezza e decadenza adolescenziale, di ricerca di piacere e libertà (e proprio Adam Ant è stato il modello a cui la Coppola si è ispirata per la figura di Axel Fersen). La musica entra anche nel presente diegetico della pellicola, come possiamo vedere nella scena del ballo mascherato, facilitando l’identificazione con l’età contemporanea. Il direttore della fotografia, Lance Acord, ci offre a questo proposito un’interessante chiave di lettura del rapporto sviluppato con la pittura durante la preparazione del film: «Sofia ed io abbiamo discusso a lungo su come realizzare un film storico senza cadere nello stereotipo. Fin dai nostri primi colloqui, Sofia ed io concordavamo sulla volontà di evitare di realizzare dipinti, ma piuttosto di creare una storia molto fantasiosa, personale, viva, all’interno di un autentico passato storico»[7]. La stessa Milena Canonero, creatrice degli splendidi costumi, afferma: «Sofia è un po’ come me, in quanto è più interessata alle sensazioni che un costume offre al pubblico. Quindi un po’ del nostro lavoro per Marie Antoinette è simbolico, un po’ è modaiolo, un po’ è psicologico. C’è sempre una ragione dietro un particolare tono o colore […] Abbiamo scelto colori e tinte che ricordassero cose che fanno venire voglia di mangiare. Siamo passate da toni molto chiari e delicati ad altri più accesi. Si può dire che siamo state influenzate dal periodo storico, ma non ne offriamo una visione classica»[8]. Spia figurativa di questa attitudine verso le fonti storiche è l’ormai celebre paio di Converse All Stars lilla, la cui presenza è assai più coerente di quanto non sembri ad un primo sguardo. La pittura del XVIII secolo è fin da subito un polo d’attrazione negativo a cui la regista e i suoi collaboratori scelgono di tenersi a debita distanza, contrapponendola alla vivacità della realtà storica vista attraverso un filtro contemporaneo: filtro che, come si è visto, conta molto su di un’estetica fotografica che permetta di registrare la realtà così come avrebbe potuto veramente essere. La citazione della pittura dell’epoca, e in particolare dall’opera della ritrattista favorita di Maria Antonietta, Élisabeth Vigée-Le Brun (1755 – 1842), è sempre posta in relazione al passato, e soprattutto un passato doloroso. Ancora più interessante il fatto che i suoi ritratti, in particolare quello di Maria Antonietta con la rosa e quello in cui è circondata dai suoi figli, vengano consapevolmente manipolati per esigenze di narrazione: la pittura, nella sua compiutezza, risulta irreparabilmente passata, compiuta, narrativamente statica, e per questo testimonianza imprescindibile e al contempo da abbattere, proprio in quanto vittima del tempo e dell’intervento umano.
È molto facile pensare che il bacino estetico in cui si muove questo film dipenda semplicemente dagli anni in cui la stessa regista ha vissuto la propria adolescenza e che dunque per osmosi Sofia Coppola si rispecchi in Maria Antonietta. Ma più coerente è l’interpretazione che ci offre Luca Malavasi: «non un film in costume, ma en travesti; non il racconto di un’epoca ma un’incursione nel suo immaginario, già mediatizzato e volgarizzato; non un film storico ma una recita o forse una festa»[9], con cui Sofia Coppola termina il suo percorso cinematografico dedicato all’età dell’innocenza. Proprio con Marie Antoinette, la regista, «forse per chiudere la serie e congedarsi da un tema che viaggia e cambia con la sua stessa biografia, va alla ricerca di un prototipo o forse di un archetipo, e lo trova, non a caso, all’alba della Modernità europea, nel momento in cui l’oltraggio alla corona, i fermenti rivoluzionari e la riflessione illuminista […] gettano le basi della società contemporanea»[10]. La rielaborazione di questo prototipo avviene proprio tramite la cultura estetica degli anni ’70 del Novecento, che a sua volta aveva già «mediatizzato e volgarizzato» le istanze settecentesche, spaziando tra fotografia, musica e moda. Per tutte queste ragioni, Marie Antoinette non può che costituire una pietra miliare, un termine di paragone di cui gli autori che vorranno cimentarsi similmente dovranno tenere conto.
[1] Dalle note di produzione di Marie Antoinette, disponibili sul sito web www.sonypictures.com/movies/marieantoinette/site, p. 5 [traduzione mia]
[2] Ivi, pp. 3-4
[3] A. M. Gingeras, Guy Bourdin, Londra, Phaidon Press Limited, 2006, p. 7
[4] Ivi, p. 13
[5] O. Rossi Pinelli, Boucher, Art Dossier n. 121, Firenze, Giunti Editore, 1997, p. 25
[6] Citazione da Michel Guerrin, in A. M. Gingeras, op. cit., p. 14
[7] Dalle note di produzione di Marie Antoinette, p.22
[8] Ivi, pp. 25-26
[9] L. Malavasi, Marie Antoinette, in “Cineforum: quaderno mensile della Federazione italiana dei cineforum”, n. 460, 2006, p. 11
[10] Ibidem
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