Recensione di Il Ministro | Una commedia nera, non priva di luoghi comuni, dove Giorgio Amato mette in scena il decadimento morale di una borghesia disposta a sacrificare tutto pur di mantenere il suo status sociale. Un successo a metà
Una cena impregnata di corruzione e doppiogiochismo dove i corpi diventano merce di scambio da servire come ultima pietanza. Dove ogni secondo fine viene annegato in un Sassicaia da trecento euro e ogni parola scomoda nascosta dalla migliore cocaina in circolazione. Il denaro può aprire tutte le porte. Ma fino a che punto siamo disposti a spingerci per questo passepartout?
Dopo l'esordio alla regia nel 2012 con l'horror Circuito Chiuso e il discreto successo del thriller The Stalker, uscito due anni dopo, Giorgio Amato è forse l'ultimo dei registi italiani da cui ci si aspetterebbe un exploit nella commedia. Eppure, ispirato dal brano Il re fa rullare i tamburi di De André e da I Mostri del magnetico Risi, si cimenta in una sfacciata opera di denuncia che si lascia conquistare dall'eccessiva smania di essere attuale, sacrificando gran parte del suo potenziale filmico in nome di un contenuto più appetibile per il pubblico.
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Nonostante alcune precise scelte pubblicitarie lascino trasparire una certa volontà di puntare proprio a quel tipo di mercato, Il Ministro non è la solita commedia adatta ad un target in cerca di qualche battuta spicciola e una sceneggiatura vacua e disimpegnata. È un amaro esercizio di satira trapiantato in un contesto simil quotidiano, dove sei azzeccatissimi attori - su tutti un superbo Tognazzi - sono chiamati a rappresentare dei personaggi-stereotipo simbolo del decadimento morale dell'italiano 2.0.
Il tocco di una regia avvezza alle atmosfere cupe del thriller non passa inosservato. Amato si rivela particolarmente abile nel tenere accesa una tensione narrativa che si fa sempre più incalzante ad ogni sguardo complice, ogni parola fraintesa, ogni pietanza servita, ravvivando sequenza dopo sequenza la curiosità sulla vera natura di ogni commensale.
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Tuttavia quei personaggi che in un primo momento potevano sembrare accattivanti o addirittura irriverenti, si lasciano assorbire in toto dallo stereotipo che gli fa da padre. L'Io di ognuno viene relegato in una zona d'ombra per fare spazio ad un archetipo che ne annulla completamente la personalità; come se ogni attore stesse interpretando un personaggio che a sua volta recita la parte di un costrutto sociale, di un luogo comune. L'opera da grande schermo - basata fin dal primo istante su scelte stilistiche azzeccate - comincia a prendere la scialba piega da talk-show, dove un Amato ormai privo della minuziosità iniziale tenta di inserire freneticamente il maggior numero possibile di temi scottanti, noncurante della qualità e soprattutto della continuità dei dialoghi, che si riducono a brevi botta e risposta autoconclusivi e sequenziati.
Politica corrotta, vegani versus carnivori, omosessualità, razzismo, immigrazione, utero in affitto, cattolicesimo. Nel giro di venti minuti una satira dapprima audace e prepotente, che per antonomasia non dovrebbe guardare in faccia nessuno, mostra al pubblico esattamente quello che il pubblico si aspetta, mutilando il film in quello che doveva essere suo punto di forza a fronte di una sceneggiatura scarna: l'imprevedibilità scenica.
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L'impressione è che lo scopo ultimo di Giorgio Amato non fosse tanto quello di realizzare un lungometraggio memorabile per meriti prettamente cinematografici, ma di servirsi della sala come medium per dare al paese un forte monito e trasmettere un messaggio d'impatto, soprattutto mediatico. Ci riesce, perchè la forza invisibile de Il Ministro non si vede nei fotogrammi, nel montaggio, i costumi o la sceneggiatura, ma nell'amarezza che lasciano 90 minuti di quella realtà sulla quale vorremmo solo chiudere gli occhi, di nuovo.
Voto della redazione:
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