Recensione di Revenant - Redivivo: Un'esperienza visiva senza precedenti, lirica e brutale
Recensione di Revenant - Redivivo di Alejandro González Iñárritu: Purezza e lirismo che nascono nel mezzo di un'odissea psicofisica brutale ed estrema. Un'esperienza visiva senza precedenti
Con Revenant - Redivivo, la sua opera più ambiziosa (altro che Birdman, a suo modo altro tour de force insaziabile), Alejandro González Iñárritu realizza anche il suo film più discusso, più contestato e - a detta di molti - persino imitativo di un certo Malick. Discordiamo, su tutti i fronti: Revenant - Redivivo è un’esperienza sensoriale e visiva come se ne hanno poche al cinema, e se il regista traccia con minuziosità quasi maniacale il percorso di Hugh Glass (5000 chilometri a piedi, ferito gravemente, per vendicarsi dell’uomo che ha ucciso suo figlio) senza lesinare in crudezza, affondando le mani senza ritrarsi indietro (la scena dell’orso è in questo senso impressionante), diverge nettamente dall'approccio malickiano (a cui molti lo hanno accostato): gli squarci poetici in Revenant - Redivivo sono ricordi frammentati che navigano tra allucinazioni e impressioni reminescenti, l’esperienza non è quella di una trascendenza che si tinge di mistico, ma più interrotta, perché procede a brevi palpiti d’amore e ricordo (quelli ciò che servono a Glass per aggrapparsi alla sopravvivenza, agli sprazzi residuali della sua umanità).
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Il resto è un cinema di forma terragna, pulsazione bestiale, febbre primitiva: Iñárritu gira come se ne andasse della sua stessa vita, come se sbirciasse da dietro un cespuglio dei minacciosi predatori, in allerta costante, muovendosi alla ricerca dell’attimo più perfetto da sporcare con il selvatico potenziale di morte della natura e degli uomini-animali. Setaccia ogni rantolo, si aggrappa alle spalle martoriate di Glass (Leonardo DiCaprio a nudo: senza voce, senza paura, senza fiato, senza filtri), alle sue ferite che inondano lo schermo, al suo respiro che invade la visione, agli occhi che grondano disperazione, inseguendo la vividezza e al tempo stesso compiendo una ricerca estetica (incredibile l’operato di Emmanuel “Chivo” Lubezki) che è puro, potente orgasmo visivo (il pianosequenza iniziale è un piccolo film a sé, miracoloso, forse come non se ne vedevano da Public Enemies di Mann).
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Purezza, folgorazione e lirismo onirici che nascono nel mezzo di un’odissea psicofisica di brutalità estrema: potrebbe sembrare un paradosso, ma è quello che Iñárritu riesce a raggiungere con una compiutezza quasi disarmante.
Voto della redazione:
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