Sta per uscire nelle nostre sale il nuovo film di Vittorio Moroni, "Se chiudo gli occhi non sono più qui", che abbiamo incontrato insieme al giovane attore filippino Mark Manaloto, Giorgio Colangeli e Giuseppe Fiorello
A circa un anno dalla presentazione al Festival Internazionale del Film di Roma esce il 18 settembre nelle sale Se chiudo gli occhi non sei più qui, l’ultimo film del documentarista Vittorio Moroni. La pellicola racconta l’incontro tra un adolescente orfano di padre, Kiko, ed un uomo più maturo che diventerà suo mentore, Ettore. Mentre il primo cerca di intravedere una speranza nonostante la difficile realtà familiare (il patrigno Ennio lo costringe a lavorare), il secondo spera nella redenzione. Abbiamo incontrato Moroni all’anteprima romana del film insieme al cast formato dall’esordiente Mark Manaloto, il veterano Giorgio Colangeli e il bravo Giuseppe Fiorello.
Come è nato questo progetto?
Ho impiegato quasi quattro anni e mezzo per realizzare questo film. I lunghi tempi di gestazione sono dovuti all’approfondimento che ritenevo necessario fare. La mia principale preoccupazione era quella di raccontare l’adolescenza che è spesso un periodo irrisolto delle nostre vite. Mi premeva dare voce ad un giovane che fosse specchio delle nuove generazioni che sempre più di frequente vorrebbero chiudere gli occhi e trovarsi da un’altra parte. I ragazzi che voglio raccontare sono quelli che non hanno padri, non hanno maestri, sostanzialmente non hanno più nessuno che possa sognare il loro futuro e devono farlo da soli.
Come è arrivato alla scelta dell’attore protagonista Mark Manaloto, che interpreta Kiko?
Io stavo cercando un adolescente che avesse origini filippine e che conoscesse che cosa significa essere orfano. Immaginavo fosse difficile poi, parlando con circa 200 ragazzi, ho scoperto che c’è una grande ferita che caratterizza i ragazzi filippini. Molti di loro infatti sono costretti a separarsi dalle loro famiglie in tenera età poiché queste partono in cerca di fortuna all’estero. Il dolore raddoppia quando si ricongiungono con i loro genitori biologici e devono separarsi da quei nonni che li hanno cresciuti come figli naturali. In questo processo ho riscontrato il dolore di un orfano. Per me l’aspetto fondamentale era l’autenticità e il mio modello Cassavetes.
Il film verrà proposto anche nelle scuole.
Sì, perché mi piacerebbe che il pubblico che va al cinema non fosse solo quello allevato dai cineforum degli anni Settanta. Vorremo attivare un discorso intorno all’adolescenza, alla scuola e al sapere.
Non è la prima volta che tratta il tema dell’immigrazione (sua la sceneggiatura di Terraferma e Razzabastarda). Perché le è così caro?
Siamo nella fase in cui non si racconta più l’arrivo degli immigrati, ma la vita che conducono nel nostro paese. Non voglio che si pensi a Kiko come ad un adolescente filippino ma come ad un ragazzo la cui storia può essere compresa e condivisa da chiunque. Il fenomeno dell’immigrazione è quello che maggiormente ha condizionato il paese negli ultimi 25 anni.
Mark ci parli della tua prima esperienza sul grande schermo?
M. MANALOTO: Inizialmente è stato molto imbarazzante perché non ero particolarmente a mio agio sul set. Poi guardando Giuseppe e Giorgio sono riuscito ad acquisire fiducia. Vittorio ci ha dato la libertà di esprimere le nostre idee sul personaggio e di inserire nel film delle tipiche tradizioni filippine. Questo film è stata l’opportunità di crescere e di provare ad essere una persona nuova, forse anche migliore. Il mio sogno rimane quello di fare l’ingegnere, domani ho il test di ammissione all’università però ho già girato il mio secondo film.
Vorrei che gli altri due attori protagonisti ci parlassero del loro personaggio.
G. COLANGELI: Mi è piaciuta la sceneggiatura e anche il personaggio di Ettore che interpreto. Anche io ho dei problemi irrisolti legati alla mia adolescenza. Sono stato sia figlio che padre e in entrambi i ruoli ho trovato delle difficoltà che mi hanno aiutato ad approcciarmi a questo film. Questo era un ruolo problematico: io sono il mentore, un’occasione di emancipazione e di educazione per Kiko che si sostituisce alla scuola perché privo dei difetti che la caratterizzano. Spesso i genitori si rallegrano che i propri figli lavorano già a 16 anni. Io trovo che sia troppo presto e che quella sia un’età che va dedicata alla crescita, all’educazione e alla cultura.
G. FIORELLO: Io nel film faccio tutto il contrario di quello che fa Ettore. Ennio in qualche modo è un iperrealista. Quello che ho amato dei personaggi di questo film è che nessuno di noi è stereotipato. Ennio, per esempio, è un uomo gretto e ignorante ma non cattivo. Io ho cercato di immaginare che trascorso avesse potuto avere e ho pensato ad una persona che si è data da fare sin da piccolo per inventarsi un futuro. Sul suo cammino poi incontra un amore e un ragazzo, Kiko, che vorrebbe tanto avvicinare a sé senza avere i mezzi per farlo.
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