Recensione di L'amore bugiardo - Gone Girl | Fincher torna a scavare il doppiofondo dell'anima
Recensione di L'amore bugiardo - Gone Girl di David Fincher con Ben Affleck, Rosamund Pike, Neil Patrick Harris: animi da scrutare, impulsi da spiare e circuiti da seguire in una perfetta moltitudine thriller di umori, shock e subdoli piaceri
Ben Affleck e Rosamund Pike sono i protagonisti di L’amore bugiardo – Gone Girl: David Fincher crea un nuovo grande affresco degli istinti mascherato da film di genere, uno sguardo verso l’interno che assume le caratteristiche del gioco per adulti, in una moltitudine di umori, shock e subdoli piaceri perfettamente orchestrati.
Una donna scomparsa, il marito sotto accusa, mentre presunzione ed apparenza si rarefanno: di chi è il piano di cui stiamo vedendo l'attuazione? Dei circuiti senza via d’uscita, nuovamente, condizione umana insieme (con)dannata ed ammaliante, in cui attraverso il giallo, il thriller, il non-detto, il cinema-marchingegno degli umani come topi nel labirinto, le anime sporche trovano modo di accettarsi. Come per Seven, Zodiac o Millennium: l’ipotesi risolutiva è uno sguardo all’abisso, dell’eco del reale, del rapporto di causa/effetto rappresentato millimetrico e fitto di particolari e precisione, capaci di risultare appaganti nel loro dipingere un’angoscia già digerita e nel cinema da descrivere, abbracciare, afferrare e trasformare in un’architettura a perdita d’occhio. Come per Fight Club, The Social Network o The Game: burattini e fili nati dal tumulto personale in un’opera a metà tra l'esplorazione interiore e la ragnatela cinematografica.
Il matrimonio, i casi mediatici, l’investigazione, la menzogna, se stessi: galere limpide e plateali, dal doppiofondo diabolico e patetico, fatte danzare facendo scivolare una sull’altra menzogna e verità mentre l’assunto base del cinema di Fincher qui è capace di ridarsi completamente e confermarsi, passando per l’eleganza del suo digitale (ancora più raffinata che in precedenza) e i suoi angoli gelidi e fagocitanti, attraverso i colori del malessere e ritmi tesi ed insieme cullanti, interminabili e morbidi tappeti rossi in preparazione per le esplosioni in cui i personaggi raggiungono il proprio apice.
Gone Girl parte e prosegue in puro stile Fincher, per poi divenire uno dei suoi migliori para-investigativi ed infine molto di più. Piani (come progetti, come rappresentazioni) si intersecano sbilenchi e perfettamente stabili. Forse stimolato dall’esperienza di House of Cards, il regista riesce ad intrecciare più linee narrative, aggiungendo plot al plot, cambiando registro, intenzioni, prospettiva, condizioni e regole, moltiplicando i campi di gioco: materiale da scrutare e sguardi da cui essere intimoriti prima, tensione nuda e violenta poi, uniti sulla sommità di questo sontuoso castello di carte a prova di terremoto, in cui il grottesco svetta su ogni cosa, protettore di ogni angoscia, mentre un primo film diventa un secondo, e poi un terzo, con la paura cangiante e la curiosità sempre più ambigua.
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Un risata sardonica dà il là alla pace dopo averci trascinato attraverso i generi, e la sensazione è quella che solo le allegorie e caricature migliori danno: Gone Girl è una commedia che impariamo a capire solo ad un certo punto, ma che probabilmente ad una seconda visione sarebbe capace di farci ridere fin dalla prima scena. L’amore bugiardo non finisce, ma ricomincia come un film diverso, da rileggere da capo, con le farfalle nello stomaco finalmente liberate.
Voto della redazione:
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