Recensione di Piuma di Roan Johnson con Luigi Fedele, Blu Yoshimi: tra tematiche abbozzate e comicità non brillante, approssimativo da una parte ed inconcludente dall'altra, un film che si ostina a voler far ridere senza però osare davvero in nulla
Dopo la visione di Piuma al Festival di Venezia 2016 l’interrogativo principale è solo uno: come può questo film essere nella selezione ufficiale? Il terzo film di Roan Johnson è una commedia, una commedia semplice che, sì, non quasi ha niente da invidiare a titoli più noti (e solitamente tenuti lontani dai festival) ma allo stesso tempo niente da aggiungere ad un genere che di questioni delicate trattate in modo approssimativo e con leggerezza sì è sempre nutrito.
Ad un film come Piuma va riconosciuto il merito di nascere quasi del tutto dal basso, libero, svincolato; ma siamo in ambito produttivo e non artistico. La sua è una comicità collaudatissima, la sua presunta freschezza appare tale solamente perché la tendenza di Johnson a far vincere la risata sul dramma si scosta leggermente da certi “è arrivato il momento delle cose serie” con cui spesso le commedie devono fare i conti. Il suo approccio ai caratteri è in ciò subordinato, e il prevalere del buffo, dell’irrisorio, dello spensierato e di un certo tipo di ottimismo arriva come bonario e stantio nel momento in cui questo è l’unico spirito regnante lungo la durata della pellicola, che sembra sforzarsi in tutto e per tutto di essere “simpatica”, con una levità che taglia corto su tutto e con tutto, finendo con l'apparire semplicemente indelicata sotto più punti di vista.
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Piuma narra di Ferro e Cate, fidanzati alle soglie dell’esame di maturità alle prese con una gravidanza (ovviamente inaspettata), con lui come protagonista semiassoluto e lei come voce della ragione, il tutto contornato da una folta schiera di comprimari, principalmente distribuiti tra le due famiglie. Disperati, eclettici e disastrati, i personaggi di Piuma fanno il loro lavoro: entrano in scena, dicono le battute, portano avanti la vicenda. Ma – evitando spoiler – la gravidanza non è l’unico avvenimento cruciale del film, eppure tutto scivola via in modo quasi apatico sui personaggi, pronti a perdonare perché maturi o a non pensarci troppo perché ingenui, mentre regia e sceneggiatura appaiono timorose o impacciate nel momento in cui lanciano il sasso e nascondono la mano dietro uno scambio risolutorio di battute o un brusco stacco, un salto, un’interruzione. Johnson ci invita e poi ci lascia a piedi, continuamente, come se mancassero la volontà e la forza di affrontare veramente le "cose" cinematografiche, e questo si avverte perennemente.
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«Senza guerra la pace cos’è?» dice una canzone che il regista di sicuro conosce. Ecco, Piuma è un film di sola pace e niente guerra. Una strada piana dove tutto è stato abbattuto in nome del sorriso e, talvolta, della risata. E non è un fatto di ritrosia nei confronti della semplicità e della leggerezza, perché Piuma ci arriva tale per un fatto prettamente registico, con tempi comici più teatrali che cinematografici e una certa tendenza a voler correre alla scena successiva, e ciò accade per la prima quanto per l’ultima, piallando il potenziale del film fino a farlo scomparire.
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Ferro e Cate rimangono degli abbozzi perché su di loro gravano sia il non sanissimo dovere di rappresentare una generazione (tramite qualche battuta appositamente infilata in gola qua e là) sia quello dei rispettivi ruoli nella storia. Siamo disposti a soprassedere davanti a ragazzi nati nel 1996 che lasciano messaggi in segreteria e a vicine di casa che ricordano gli indirizzi delle case al mare a memoria, ma non alla riduzione ai minimi termini di personaggi ed eventi: in Piuma ogni per ogni passo in avanti ce ne sono due indietro e nascondersi dietro paperelle di plastica e nutrirsi di frasi ad effetto inserite tra una gag e l’altra non può portare da nessuna parte.
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