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Autore Andrea Caramanna :: 5 Luglio 2016

Addio ad Abbas Kiarostami, uno dei più importanti registi del panorama internazionale. Dopo mesi di malattia si spegne a settantasei anni

Abbas Kiarostami

Tanti anni fa quasi nessuno conosceva Abbas Kiarostami, finché i Cahiers du Cinéma, prestigiosa rivista francese gli dedicò uno speciale. Anche in Italia cominciò ad essere conosciuto ed ammirato e cominciarono le prime rassegne a lui dedicate e anche incontri diretti con il regista.

Chi scrive lo ha conosciuto e si ricorda quando nel corso di un seminario invitò una ragazza partecipante per cercare di concentrarsi su un soggetto qualunque. Era il suo metodo di lavorare e nessuno riusciva a capire cosa stava accadendo. Altri partecipanti aspettavano che si mettesse in moto qualcosa, ma alla fine la ragazza disse di vedere “soltanto” un bosco con una vegetazione molto fitta.

A pensarci bene in questo aneddoto è spiegato il cinema di Kiarostami. Chi lo conosce avrà già capito.

Il suo cinema era una perenne attesa: di fronte alla macchina da presa è inutile pensare di aver costruito un set con tutti i dettagli in ordine. Il cinema è lo splendore del vero che poteva fortuitamente essere registrato dall’occhio meccanico.

Così i suoi film erano tutti una straordinaria ricerca di questa verità. Kiarostami attendeva e la sua pazienza spesso era ricompensata. Sul set accadeva la magia, quel qualcosa di inspiegabile, un’energia tra attori e messa in scena che rendeva il film un’opera piena di sensi, di intimi significati che poi ognuno doveva scoprire in se stesso, in una ricerca parallela. Kiarostami era come se aprisse delle porte sconosciute, che spesso per pigrizia non vogliamo neanche scoprire, ma ancora più spesso non osiamo guardare per paura.

[Leggi anche: Arriverà nel 2016 l'ultimo film di Abbas Kiarostami, 24 Frames Before and after Lumière]

Quando cominciò ad essere conosciuto con Dov’è la casa del mio amico? aveva già fatto tanti film per l’Istituto per lo sviluppo intellettuale dei bambini in Iran, lavorando quindi sempre con attori non professionisti. Nessuno avrebbe potuto immaginare un autore così denso, già a partire da quel cortometraggio di debutto, Il pane e il vicolo (1970), in cui vediamo semplicemente un ragazzino che tenta di attraversare un vicolo per comprare il pane ma viene fermato da un cane che lo spaventa. Sì, proprio così, grandissima lezione di cinema, per quelli che si chiedono se serva un soggetto eccezionale per girare immagini in movimento. Kiarostami da subito dimostrò che bastava appena guardarsi intorno, ma con occhi aperti per cogliere gli innumerevoli dettagli (sorprendenti) del mondo in cui viviamo.

La sua più grande capacità fu in quegli anni di lavorare con i bambini; un suo modello nel bene e nel male poteva essere De Sica (accusato anche di trattare male i giovani protagonisti per ottenere il massimo sul set) e poi anche Robert Bresson che lui amava profondamente e citava in continuazione (in particolare il volume di Bresson, Note sul cinematografo) e poi anche Ozu al quale dedicò il documentario Five (Five dedicated to Ozu). E guarda caso su Kiarostami piombarono le stesse accuse fatte a De Sica, ma il suo metodo non poteva che trovare tutte le strategie possibili per arrivare all’obiettivo.

Per vedere un suo film occorre molta attenzione, bisogna lasciarsi trasportare da tutti gli elementi della messa in scena per comprendere tutta la sua riflessione attraverso le immagini che ha creato. Kiarostami fu un eccellente fotografo e pittore e poeta: non poteva essere altrimenti, essendo in sostanza un architetto della visione in qualunque forma possa esser sviluppata, dalle immagini fisse alle immagini su tela a quelle in movimento fino alle parole.

Se la prima parte della sua carriera era più concentrata sulle storie umane, ecco che a partire dai film successivi il paesaggio cominciava a diventare un protagonista assoluto. Celebre è la salita a zig zag su una collina vicino al villaggio di Koker percorsa più volte e anche celebre rimane la sua scelta di girare in spazi angusti come l’automobile, come successe in E la vita continua (che poi faceva parte della splendida trilogia che si chiudeva con Sotto gli ulivi, che raccontava il terribile terremoto in Iran) e poi in Ten con una donna taxista che era un monito femminista contro il suo paese arroccato sul più bieco maschilismo.

Un altro capolavoro arrivava nel 1990. Era Close-Up. Uno dei film più intriganti dal punto di vista dell’intreccio narrativo, con una serie di twist visivi, di tale raffinatezza che oggi nessuno saprebbe eguagliare.

Nel 1997 arriva il trionfo a Cannes con Il sapore della ciliegia, film filosofico sul senso della vita e della morte, che di sicuro portava Kiarostami a una svolta di carriera. Dopo Il vento ci porterà via (1999), Kiarostami sembra ancora più proiettato verso un cinema intellettuale (fate voi se considerarlo solo un difetto). Tanto che la realizzazione di film è meno spedita. Con Ermanno Olmi e Ken Loach dirige Tickets nel 2005 e poi soltanto nel 2010 Copia conforme. Ma prima un'altra sua opera lasciava abbastanza basiti, si trattava di Shirin (2008), davvero un film quasi sperimentale in cui si vede una sala cinematografica affollata di spettatori: il film in pratica seguiva la proiezione per tutta la sua durata! Che Kiarostami lavorasse per creare sempre delle opere originali è un fatto sicuro. Per noi è stato un grande maestro e non solo di cinema!

Il suo ultimo film, Qualcuno da amare, chissà perché ci fa pensare al finale di un altro film testamento (o solo testamento di un momento esistenziale del suo autore): Eyes Wide Shut, let’s go to fuck… Entrambi alla ricerca di un amore (im)possibile. Il titolo di Kiarostami è più diretto e ironico di quello di Kubrick: Come qualcuno in amore, titolo inglese che forse è diverso - non credete? - dal sempliciotto titolo italiano, Qualcuno da amare

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