Con Grazia Colombini si ha la sensazione di scoprire una storia diversa del nostro cinema, per le sue scelte eclettiche e le collaborazioni professionali che vanno da Giuseppe Bertolucci a Pasquale Scimeca a Pappi Corsicato e tanti altri registi
L’industria cinematografica italiana ha tanti validi professionisti, di solito sconosciuti al grande pubblico. Spesso incontrandoli, come nel caso di Grazia Colombini, si ha la sensazione di scoprire una storia diversa del nostro cinema, ma soprattutto, anche grazie alle sue scelte eclettiche che costellano un curriculum di un paio di decadi (collaborazioni che vanno da Giuseppe Bertolucci a Pappi Corsicato, Tonino De Bernardi, Pasquale Scimeca, Daniele Ciprì e tanti altri), di considerarla una protagonista assoluta del cinema italiano e non solo degli ultimi vent’anni. Vediamo perché.
La tua formazione è stata molto eclettica…
Ho fatto studi artistici, pittura all’Accademia di Brera a Milano, poi ho lavorato molto con i fotografi nei teatri di posa, per l’editoria e la pubblicità, imparando il rigore e la cura dell’immagine. E poi appassionata di cinema ho avuto la fortuna di lavorare proprio nell’industria cinematografica con un primo film che ha vinto nel ‘91 l’Oscar come miglior film straniero. Il percorso per costruire questa professione è molto diversificato oltre alle proprie capacità e quindi all’apprezzamento per il proprio lavoro, dipende anche molto dalle occasioni che ti crei, ma soprattutto da quelle che ti si presentano anche casualmente, dagli incontri con i registi, dal loro successo e dai loro fallimenti. In qualche modo il nostro “successo” dipende dai film, insomma, oltre che dalle nostre capacità.
È una professione complessa, molto vicina alla regia, alla sceneggiatura. Ha a che fare con la creazione dei personaggi, con la loro espressione esteriore, immediata, con la loro psicologia, con lo svolgersi della storia, con le emozioni. Ha a che fare con lo stile del racconto, nei colori, nei segni. È fatta di ricerca, di passione per le immagini, per tutte le immagini. Ma è anche fatta di organizzazione, pianificazione del lavoro, gestione e amministrazione. È una professione che pochi conoscono nei suoi aspetti, spesso neanche gli addetti ai lavori… È un lavoro di cui si parla poco in Italia, è sottovalutato, come d’altronde la scenografia. Devi avere fatto un film che abbia avuto un forte successo di critica, vinto dei premi, per essere preso in considerazione, ma il più delle volte finisce lì. Mi è capitato spesso di essere citata con competenza per il mio lavoro su prestigiose riviste di cinema straniere, molto raramente in Italia. Eppure i costumisti Italiani, così come altre professioni artistiche, sono stimati in tutto il mondo!
Sono cresciuta professionalmente con Giuseppe Bertolucci, l’esperienza con lui è stata irripetibile. Ho lavorato con un gruppo di lavoro fantastico, Fabio Cianchetti, Gianni Silvestri e altri tra i migliori professionisti che abbiamo in Italia. La cosa interessante è che essendo stato Bertolucci un uomo di cinema, di teatro e di arte, ha racchiuso nel suo modo di lavorare tutte le arti e i linguaggi. Così imparavi tanto, lavorando come in un work in progress confrontandoti di continuo con i tuoi colleghi. Le prove costume erano sempre momenti affascinanti dove gli abiti, gli elementi della moda, del quotidiano e della fantasia si mischiavano senza definirsi in modo rigido. Perché con lui si lavorava così con grande cura e attenzione per i dettagli, grande amore per gli attori e per il cinema.
L'industria del cinema e la formazione: come si fa a conoscere gli aspetti di un lavoro per il cinema, dove sono le fonti?
È importante parlare di più delle professioni del cinema. Pochi le conoscono. Negli altri paesi ci sono siti, blog, notizie continue sui costumi dei film, ad esempio. Se ne parla e in qualche modo diventa valore aggiunto per il cinema, per gli attori e valorizzazione della professione. Sono sicura che anche in Italia il pubblico sarebbe interessato a conoscere meglio il lavoro di costumisti, scenografi ecc…
C’è anche bisogno di parlare delle professioni in modo nuovo, perché i giovani oggi in Italia hanno poche possibilità di accedere ad una formazione più aggiornata. Ad esempio nella scuola di cinema dove insegno abbiamo introdotto dei corsi di wearable applicato al costume, per dare delle opportunità in più agli studenti su competenze tecnologiche già avanzate in Europa.
Tornando alla tua formazione, nel tuo curriculum, mi sembra che hai incontrato professionisti molto attenti alla messa in scena…
Sì, sono fortunata, posso dire di aver lavorato sempre con persone interessanti, con un immaginario diversificato, anche giovani registe alle loro opere prime, come Elisa Fuksas o Laura Bispuri. Il cinema dovrebbe dare le giuste opportunità alle registe che in molti casi hanno una forza e una visione davvero innovativa.
C’è, molti anni fa, la pubblicità come lo spot Aperol premiato a Cannes…
Sì, quello era agli inizi, quando negli anni novanta facevo tanta pubblicità molto bella, con Pietro Follini un regista davvero interessante, perché molto cinematografico. Ho fatto poi delle scelte, delle rinunce a lavori più remunerativi come le fiction per orientarmi verso un cinema d’autore in cui le storie e i contenuti mi erano in qualche modo più vicini. Comunque il mio lavoro offre tante opportunità diverse e io trovo che la vera ricchezza stia nell’attraversare tutti i generi possibili. Questo è quello che ho cercato di fare; dalla pubblicità al cinema d’autore passando per la televisione, mischiando i linguaggi, moda e costume, sempre per fortuna su progetti di qualità.
Se si vede la tua filmografia si rimane sorpresi, perché si legge anche un fil rouge che attiene alle scelte di costume, la sensazione anche di un approccio originale alle figure femminili come nei film di Tonino De Bernardi o anche nel cinema di Pappi Corsicato, laddove c’è tantissimo un lavoro evidente proprio sui costumi.
Proprio questi registi, con un immaginario sfavillante, hanno una grossa necessità di avere dei costumisti in grado di lavorare su un una narrazione che si basa molto anche sugli abiti. Soprattutto Corsicato, è un regista che lavora su un piano fortemente estetico e per un costumista è certamente molto interessante oltre che divertente. Certo sono film con budget piuttosto bassi, che ti impongono un lavoro di ricerca e realizzazione dei costumi un po’ rocambolesco per poter soddisfare un’estetica così accurata con pochi soldi.
Allora tu dici che il tuo contributo in quel caso (colori, iperrealismo, immaginario cartoon… ) è stato superiore al 50%...
Sì, beh decisamente, un costumista è responsabile del risultato finale, di quello che vedi sullo schermo. Il tuo contributo al film è quello di interpretare l’immaginario del regista, quando questo ne ha uno. Ci sono casi in cui il regista non sa comunicare alla troupe la sua idea e allora in quel caso è facile che le cose non funzionino e poi si vede.
Con Daniele Ciprì hai lavorato più di recente…
Daniele Ciprì, essendo un grande direttore della fotografia è attentissimo alle immagini, ha una passione infinita per le immagini e per i racconti. Lui delega molto, ti dà molti riferimenti da Frank Capra a un b-movie orrendo, bisogna prendere tutto e lavorarci sopra. È sempre aperto al confronto e ha un grande entusiasmo che ti trasmette anche nei momenti di difficoltà. Daniele Ciprì è un regista che ama sperimentare i generi ma i suoi personaggi sono più o meno sempre gli stessi, è come se li conoscessi da sempre, mi viene facile immaginarli, crearli, sono amici.
Pasquale Scimeca, il suo approccio filologico, era più lontano dall’immaginazione?
Con Pasquale è tutto un altro discorso. Scimeca è prima di tutto uno storico, ha una visione del racconto più didascalica, lui non ha un particolare interesse per i costumi, gli interessa soltanto che il costume faccia sì che il personaggio corrisponda esattamente al suo ruolo nella Storia.
Intendi fisicamente… la relazione tra corpo e personaggio.
Anche, a volte ci si trova a una non corrispondenza tra corpo e personaggio, allora diventa difficile farlo vivere attraverso il costume. Questo può accadere quando si lavora con i “non attori”, gente presa dalla strada con volti interessanti che poi magari deve interpretare, che ne so, pescatori senza mai essere saliti su una barca. Allora il costume spesso può fare poco, se manca la gestualità, la presenza scenica. D’altra parte quando questo invece funziona e la corrispondenza tra il volto, il corpo e il costume fanno vivere i personaggi, è un risultato di grande soddisfazione, e questo si vede tanto nei film di Scimeca che si ispira a un certo “neorealismo”.
Con Visconti utilizzare i vestiti in un certo modo è stato molto innovativo, in un’epoca in cui cinema e teatro non avevano nulla di realistico, utilizzare abiti usati è stato veramente sperimentale e funzionale a raccontare storie che dovevano apparire “vere”. Per esempio in Placido Rizzotto abbiamo cercato per settimane abiti veri utilizzati dai contadini e dalla gente del posto. Abbiamo utilizzato un cappotto degli anni quaranta prestatoci da una signora: è un oggetto che ti racconta qualcosa di più, si porta dietro qualcosa, poi sul corpo dell’attrice si trasforma, diventa ancora qualcos’altro. Il mio lavoro è interessante per questo, per vedere questa cosa che muta, che si crea, leggere un personaggio che non c’è, è sulla carta, lo immagini, ci lavori, e poi ti appare davanti agli occhi in prova costume, sul set e poi sullo schermo. È una magia pazzesca e quando tutto funziona è una cosa davvero emozionante.
Con altri registi, come Paolo Franchi (Nessuna qualità agli eroi), con l’abbigliamento dei nostri giorni, il lavoro di costumista sembra apparentemente più semplice…
Invece è spesso il contrario, il lavoro con Paolo Franchi così come con Nina di Majo (L’inverno) è stato così calibrato, i personaggi devono emergere con poche linee. Se vuoi la verità quello è stato un lavoro molto difficile, ma che mi ha dato molta soddisfazione. Sono lavori in cui la psicologia del personaggio viene vista e approfondita in tutti gli aspetti. E trovare quel segno giusto è un lavoro così meticoloso. Ho lavorato tantissimo con Cesare Accetta, direttore della fotografia, per calibrare un cromatismo, uno spessore. Un costumista non per forza deve fare dei costumi che si notano, è la storia che indica come devono essere i costumi e in quel caso, di Nessuna qualità agli eroi, si doveva trovare il giusto limite, era più complesso.
Con i videoclip ti sei rilassata di più…
Con Vasco Rossi è stato molto divertente, un classico, diciamo, c’erano due squadre di ballerini che si affrontavano e c’era anche un buon budget. Comunque, se proprio vuoi saperlo, questo è un lavoro dove è meglio non rilassarsi troppo…
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